Giuseppe Parlato, Libero 23/10/2010, 23 ottobre 2010
GLI ITALIANI ABBANDONATI TRA LE BRACCIA DI TITO
«L’egemonia del Partito comunista jugoslavo nella Venezia Giulia si realizzò dal 1941 al 1945 in un corrispondente ritirarsi della sovranità politica del Pci». Con questa affermazione molto significativa s’inizia la densa ricerca di Patrick Karlsen, Frontiera rossa. Il Pci, il confine orientale e il contesto internazionale 1941-1955, ora edita dalla Libreria Editrice Goriziana (pp. 272, euro 26). Un libro importante perché mette a fuoco la politica del Pci in Venezia Giulia, la sua incapacità di difendere l’italianità di quelle zone dalle mire di Tito, le sue contraddizioni tra il volere essere il «partito nuovo nazionale» e le esigenze ideologiche del comunismo internazionale, impersonate dalla politica del Cremlino e dal suo alleato più importante, la Jugoslavia di Tito, almeno fino al 1948, anno della clamorosa rottura tra comunisti jugoslavi e sovietici.
Difesa formale
In realtà, questo volume costituisce uno dei più significativi apporti a un tema delicato quanto politicamente rilevante, il rapporto tra il Pci e la nazione; quest’ultima intesa non soltanto come entità geografico-politica, ma soprattutto come cultura e come identità. Il problema affrontato da Karlsen è dunque duplice: verificare se e come il Pci sia stato particolarmente carente nella difesa della frontiera orientale italiana dalle aspirazioni espansionistiche titine; in secondo luogo, comprendere perché tale difesa sia stata velleitaria, insufficiente, o addirittura meramente formale, a uso della opinione pubblica italiana, mentre, in realtà, Togliatti avrebbe rinunciato fin dall’inizio a porre il problema nazionale su quelle zone, assecondando le strategie sovietiche.
Come sottolinea Elena Aga Rossi nella bella introduzione al volume, Karlsen dimostra chiaramente come Togliatti non soltanto fu costretto a rinunciare in Istria e a Trieste alla politica nazionale perseguita dal Pci nel resto d’Italia, ma addirittura a isolare e sconfessare quei dirigenti comunisti che non si assoggettavano alle linee guida della politica sovietica, giungendo a frantumare l’unità politica del Cln.
Non solo, ma il Pci assistette senza battere ciglio all’eliminazione degli italiani presunti fascisti nelle foibe e nei campi di concentramento jugoslavi. E ancora, la pesante interferenza jugoslava sulla politica del Pci rischiò di mettere in crisi la strategia di Togliatti in Italia, quella elaborata a Salerno che non prevedeva momenti insurrezionali per giungere al potere, alzando invece le quotazioni di quanti, a iniziare da Secchia, ritenevano che il potere si sarebbe conquistato con la forza, grazie all’aiuto di Tito.
Già nell’ottobre 1943, Togliatti, in una lettera al Partito comunista jugoslavo, mostra chiaramente qual è la direttiva del Pci in ordine alla destinazione di Trieste e dell’Istria: «Se si trattasse di scegliere tra un’Italia fascista (leggi: borghese) e uno Stato sovietico o popolare, è evidente che appoggeremmo l’adesione a questo e non a quello».
Nell’estate del 1944 si posero le condizioni per il passaggio dei poteri dal Pci al partito comunista sloveno: Kardelj, il potente braccio destro di Tito, aveva chiarito che il Pci non avrebbe dovuto «fare nulla», soprattutto non avrebbe dovuto porre la questione delle terre italiane sulla frontiera orientale per evitare reazioni nazionalistiche nelle popolazioni italiane, ma soprattutto per non intralciare l’azione sovietica e jugoslava. Anzi, è da allora che parte il lento ma progressivo assorbimento delle strutture del Pci da parte dell’omologo sloveno: il Cln scompariva di fatto e la federazione comunista di Trieste si definiva «autonoma», fondendosi col comitato locale del partito comunista sloveno.
Il suggello a tale operazione fu posto a metà ottobre, in un incontro al vertice fra Dilas, Kardelj e Togliatti nel quale il leader comunista approvò senza esitazioni la linea jugoslava sulla occupazione progressiva della Venezia Giulia, allo scopo di evitare che si potesse instaurare un qualsiasi simulacro di amministrazione italiana: il Pci avrebbe dovuto collaborare alla instaurazione di un rapporto di amicizia fra italiani e sloveni.
La linea di Togliatti fu sottolineata più volte, fino alla fine della guerra: l’Italia fascista aveva voluto il confine della Prima guerra mondiale, che sottometteva gli slavi entro confini ingiusti e nazionalistici. La probabile decurtazione del territorio nazionale era un giusto scotto che l’Italia democratica doveva pagare al passato fascista. La sua nuova linea di politica estera doveva essere quella più vicina agli interessi dell’amica Jugoslavia, che aveva contribuito a liberare quelle zone dal fascismo. Questo tentativo di coniugare, «con estro», afferma Kerlsen, la politica di unità nazionale con le esigenze sovietiche, si manifesta in numerosi articoli della prima metà del ’45 su “Rinascita” e su “L’Unità”.
Vie tortuose
Tuttavia, già in questo periodo, si manifestavano alcuni accenni in controtendenza. Perdere Trieste, sì, forse, ma concederla alla Jugoslavia non necessariamente. Togliatti qui cercava, poco prima della fine della guerra, di fare passare la soluzione di Trieste “città libera” allo scopo di mostrarsi come colui che aveva «salvato», almeno in parte, la situazione. Presentando la soluzione come un modo un po’ tortuoso per giungere all’annessione di Trieste alla Jugoslavia, tentò di convincere i sovietici della bontà di tale proposta, senza per altro interrompere la marginalizzazione di quei dirigenti comunisti che rifiutavano il passaggio di Trieste a Tito. Il comportamento di Togliatti, in questa fase, è descritto da Karlsen come «sfaccettato, polivalente e francamente funambolico».