Caterina Amicucci, il manifesto 22/10/2010, 22 ottobre 2010
L’ENERGIA DI PANAMA
L’economia della Repubblica di Panama non sembra essere stata colpita dalla crisi. Nonostante l’attività commerciale legata al canale negli ultimi due anni abbia registrato un segno negativo, l’economia del paese ha continuato a crescere. Basta fare un giro nella capitale per capire il motivo. Nell’ultimo decennio i grattacieli che compongono lo skyline in pieno stile newyorkese sono spuntati come funghi. Ma una passeggiata notturna rivela che la maggior parte degli edifici sono vuoti. Panama, oltre a essere un paradiso fiscale, è una grande lavanderia di denaro sporco proveniente principalmente dal narcotraffico. La bolla immobiliare ha permesso di regolarizzare enormi capitali. Ma la nuova frontiera del riciclaggio si sta spingendo verso le infrastrutture e lo sfruttamento delle risorse. In un paese grande un quinto dell’Italia, si stanno pianificando 91 progetti idroelettrici già dati in concessione, mentre altri 200 attendono di essere approvati dall’autorità ambientale. Se questo piano dissennato andrà in porto, non ci sarà un fiume o torrente libero in tutto il paese. Panama non ha bisogno di elettricità, produce già molta più energia elettrica di quella necessaria a soddisfare la domanda nazionale. La produzione è destinata al sistema di interconnessione centroamericano. Un lucroso business nel quale convergono gli interessi della criminalità, dell’élite politica e delle imprese straniere. La regione più colpita è il Chiriquì, al confine con il Costa Rica, ricchissima di corsi d’acqua, che ospita parte del distretto indigeno di Ngobe-Buglè. Gli Ngobe sono una delle sette etnie indigene del paese. Nonostante la costituzione riconosca e regoli i diritti delle popolazioni indigene, il nuovo governo di Ricardo Martinelli sta cercando di ridurne l’autonomia e l’indipendenza e di favorire a qualsiasi costo gli investimenti e la circolazione di denaro. Martinelli stesso è un imprenditorie nella campo della distribuzione alimentare, oltre a essere uno dei cinque maggiori produttori di carne del paese. Dal momento che possiede la catena Super 99, controlla, insieme a pochi altri magnati, i prezzi alla produzione e al consumo del cibo. Uno dei progetti che minaccia gli Ngobe è la diga di Barro Blanco sul fiume Tabasarà. Lungo le sue sponde risiedono da secoli diverse comunità, mille persone in tutto, che non solo non sono state né informate né consultate, ma gli è stato negato l’accesso all’unico incontro pubblico organizzato dai promotori del progetto. La valutazione di impatto ambientale nega addirittura la loro esistenza. Barro Blanco rischia di essere realizzato anche con i nostri soldi, considerato che la società concessionaria ha richiesto un prestito alla Banca Europea per gli Investimenti (Bei). Ma le comunità hanno fatto ricorso e hanno intenzione di appellarsi con tutti i mezzi a loro disposizione non solo contro i progetti idroelettrici, ma anche per fermare il progetto della miniera di rame Cerro Colorado che rischia di contaminare l’intero bacino. L’ufficio ricorsi della Bei si recherà la prossima settimana nel Chiriquì per ascoltare le ragioni degli Ngobe. Purtroppo il governo ha già dimostrato di voler usare la forza. A luglio scorso una protesta contro la legge definita «Chorizo» (salame), nella vicina Bocas del Toro è stata repressa nel sangue lasciando sul campo morti e feriti. La legge contiene diversi provvedimenti con lo scopo di colpire i sindacati, alleggerire gli obblighi di valutazione ambientale e sociale e rafforzare i poteri della polizia. Solo l’inizio di quello che potrebbe accadere nei territori indigeni panamensi nel prossimo futuro.