Marco Neirotti, La Stampa 23/10/2010, 23 ottobre 2010
IL TRIONFO DEL MAESTRO INVISIBILE
Sembra ascoltarti anche con gli occhi, pure quando guardano altrove. Risponde con parole spontanee quanto curate, che annientino l’equivoco. Ama il contrasto, voce lieve per dire: «La tela l’aggredisco». Pordenone Montanari, 73 anni - trascorsi a scrivere e dipingere e scolpire senza un giorno d’ambizione di esporre o vendere - dopo la mostra londinese nata da un caso della vita è indicato come maestro del secondo Novecento. Non si esalta e non fa di sé personaggio, scava l’interlocutore per sapere quanto può porgere dei suoi legami con la penna di Marin e Tomizza, Svevo e Magris o con la mano di Tamburi e Guttuso.
Pittore e scultore
Di lui si parlò d’improvviso in agosto. Abitava con la moglie Flavia - anima concreta e artistica che ne integra l’esistenza - in una casa a Valle San Nicolao, fuori Biella. Decidono di vendere la villa e si presenta una coppia: Raja Khara, origine indiana, e la moglie Cinzia: scoprono un museo che sembra vegliare sulle ombre e sulla luce del giardino, o tacere appisolato sui muri affrescati da Pordenone e nei quadri disposti in una sala un po’ galleria e un po’ magazzino. Raja e Cinzia, senza forzare volontà, parlano con lo storico dell’arte Edward Lucie-Smith, a Londra, e là in settembre approdano dipinti e disegni dove si leggono riferimenti e sintesi e rincorse in avanti che partono da Cézanne e viaggiano per Bacon, Picasso, Braque.
Una vita nascosto
Colori quasi rabbiosi e riaddolciti, una carnalità tangibile ma sublimata, per Pordenone Montanari sono «l’equilibro fra testa e pancia, fra intelligenze e viscere». Non vuole imporre alcunché, però ci tiene che sia chiara «l’urgenza». Quell’urgenza che per una vita s’è esaurita nell’esprimere: «L’atto della creazione è la vera ragion d’essere dell’artista», ha scritto. E, finito l’atto, non gli interessava quello successivo: la diffusione, la vendita, il guadagno, la fama, la gloria. Anche adesso, senza nascondersi, assente anche a Londra, va per mostre e musei con la pace della creazione compiuta. Lui è il quadro che lo soddisfa, non l’uomo che l’ha dipinto.
Il racconto è nella naturalezza che lui e Flavia vedono in uno zingaresco, apolide viaggio di due anime e i pennelli. Nato a Pordenone nel 1937, figlio di un impiegato di un cotonificio, scopre la scrittura: «A dodici anni chiesi nel cotonificio se avessero un locale da imprestarmi per scrivere tranquillo. Me lo concessero». Come si fa con un bambino. Nel tempo ha pubblicato molti libri, senza preoccuparsi di una grande distribuzione: «Addestrandomi da solo nel mestiere dello scrivere», «La mano che bussa», «Primavera partire», i volumi di «Filetto e Clitoride», che a dispetto del titolo non sono pornografici. Delle parole ha rispetto ma non paura, le sfida, come a voler svegliare un cuore appannato: «Le parole sono tutte vecchie. Secondo come le fai incontrare diventano nuove. Devono, come i titoli, evocare». Classici francesi e russi, Stendhal e Dostoevskij, sono i suoi richiami. Ma loro sono arrivati a Montanari, perché per anni non far arrivare la sua pittura e tenerla chiusa? «E’ vero, la civiltà lo esige, l’arte è viva se arriva all’altro, ma io quel cammino non l’ho saputo e non lo so fare».
Non l’ha fatto mai, tra pennelli e penna in un girovagare continuo. Gli studi («volevo fare il classico, mi spedirono a studiare da geometra perché da lì veniva il lavoro»), il servizio militare e poi, con Flavia, a Milano per sei anni, quindi a Parigi, gli incontri con Tamburi, in Spagna, in Germania, di nuovo a Milano, poi vicino a Biella, ora di nuovo verso casa. Nei primi anni milanesi lavorò per una società che faceva coperture per centri siderurgici, più public relation man, proprio lui, che geometra. Ma smise. Flavia impiegata in uffici, aziende, banche e lui in casa, senza uscirne, ma lasciando vagare tra le mura il viscerale bisogno di «aggredire la tela». A mordere l’errore: «E’ la tela bianca quella che non ti parla. Una volta buttavo via quel che mi sembrava sbagliato, poi ho capito il richiamo della tela già sporca, il volarci sopra, andare oltre e partire». Partire - colori, parole, un legno - è lasciar la via al divampare di lava che sta dentro questo signore elegante e compassato, tranquillo e inquieto nel darsi al vulcano che lo scuote e lo ama.