Gigi Riva, L’espresso 28/10/2010, 28 ottobre 2010
NON SPARATE SULLA SERBIA
Sapete perché sempre più serbi vanno al mare in Turchia e non in Croazia? Coi turchi in fondo abbiamo vissuto più a lungo. La battuta circola a Belgrado ed è più efficace di mille analisi geopolitiche. La Turchia occupò per secoli la Serbia, era il nemico privilegiato, e ancora durante i conflitti degli anni Novanta la soldataglia paramilitare degli Arkan e simili andava all’assalto al grido di "Morte ai turchi". Adesso il presidente Boris Tadic si incontra con Recep Tayyip Erdogan e stabilisce un accordo di libero mercato che partirà nel 2015. È la fotocopia di quanto già siglato con la Russia. Un prodotto che sia al 51 per cento made in Serbia può arrivare a Mosca pagando solo l’1 per cento di tasse. Immaginarsi l’interesse a delocalizzare qui di aziende, per esempio italiane, che possono usare Belgrado come cavallo di Troia per entrare nel vasto mercato della Federazione di zar Putin. La Turchia a sud, i fratelli ortodossi a nord e in mezzo quell’Unione europea che, se conquistata (il 25 ottobre si decide sul trattato di adesione), sigillerebbe il reingresso a pieno titolo nella società delle nazioni del Paese dalle troppe guerre e che solo 11 anni fa è stato bombardato dalla Nato. Persino Hillary Clinton è stata di recente a Belgrado per spargere balsamo sulle ferite e ha riconosciuti i "grandi passi" compiuti nella direzione della democrazia.
La Clinton era in visita il 12 ottobre, stesso giorno degli incidenti allo stadio di Genova, e i maligni hanno voluto leggere la coincidenza con le lenti della volontà invece che con quelle della casualità. Prima ipotesi: il governo che lascia volentieri partire i vandali-nazionalisti per non ritrovarseli sotto i palazzi del potere a protestare contro il segretario di Stato americano. Seconda ipotesi: l’energumeno Ivan Bogdanov e i suoi sodali che arrivano in Italia finanziati da quella malavita che, intrecciata ai servizi segreti, vuole continuare a vivere nel poco splendido ma lucroso isolamento. Un giornale solitamente ben informato come "Politika" spara addirittura una cifra: 200 mila euro pagati da due boss ai facinorosi per scatenare i disordini, screditare il Paese e allontanare l’ancoraggio europeo. Niente nomi, ma gli indizi portano a Dragan Stojanovic, detto "Keka", leader del clan criminale di Nuova Belgrado, che tra le altre attività si occupa anche della vendita di giocatori all’estero. Era della sua scuderia il portiere della Nazionale Vladimir Stojkovic, quello minacciato dai tifosi: Keka non avrebbe avuto percentuali dagli ultimi suoi spostamenti e si è vendicato. E poi Darko Saric, re della cocaina, proprietario della squadra di calcio Rudar, pluriricercato e protetto, stando alla Dea americana, da Milo Djukanovic, primo ministro del Montenegro, visto che usa la banca del fratello del premier, Aco, per i suoi affari e verserebbe il 20 per cento dei proventi del narcotraffico nelle tasche del politico. Saric è l’epigono di una serie di criminali che grazie alla latitanza dello Stato, o alle coperture di cui hanno goduto, hanno potuto dettare l’agenda pubblica. Ma la storia non si ripete mai allo stesso modo e sarebbe ingiusto non riconoscere le differenze tra lo Zeljko Raznjatovic (Arkan) che devastava gli stadi negli anni Novanta e l’Ivan Bogdanov che lo scimmiotta vent’anni dopo. Il primo poteva contare sull’appoggio della maggioranza silenziosa, aveva il suo referente massimo nello stesso leader Slobodan Milosevic, era osannato come un eroe. Il secondo è un disoccupato, rappresenta una vergogna nazionale e, catturato, invece di rivendicare il serbo furore, piagnucola per una supposta eterogenesi dei suoi fini. La Serbia è cambiata, lo scontro finale tra le nostalgie del passato e la proiezione in una dimensione moderna può riservare colpi di coda anche sanguinosi ma non far deragliare da un percorso che sembra ormai scritto.
Milosevic fu cacciato esattamente dieci anni fa (5 ottobre 2000) e la transizione, tra vari stop and go, ha comunque marciato. Partendo da quegli apparati che più erano serviti a una repressione oscurantista. Dall’anno prossimo l’esercito sarà formato solo da professionisti e non sarà più di leva. E stata varata una riforma dell’ex temibile polizia che la mette, come del resto l’armata, sotto il controllo civile. E stata radicalmente rivista la legislazione sui diritti umani, cambiato il sistema giudiziario, varate le privatizzazioni (tra molti problemi, come vedremo). Un vortice di novità non sempre metabolizzato dal corpo pigro di una nazione che ha combattuto quattro guerre tra il 1991 e il 1999 e che ha fatto dell’epica guerriera, anche nelle gloriose sconfitte, la cifra costitutiva dell’identità nazionale. Così fioriscono in Parlamento (ma pur sempre fioriscono) commissioni d’inchiesta sulla corruzione dilagante. Gli ottimisti archiviano queste malefatte come il tributo necessario per diventare un Paese normale. Normale non del tutto se, in mezzo al guado, si vede la meta dell’altra sponda ma non si è ancora dimentichi da dove si è partiti.
I conti aperti riguardano, ancora, le guerre. Solo il 24 per cento dei serbi, stando a un sondaggio, sarebbe disposto a consegnare al tribunale dell’Aja il generale Ratko Mladic, responsabile della carneficina in Bosnia Ma a voler guardare il bicchiere mezzo pieno, la collaborazione col tribunale da un paio d’anni si è fatta più stretta se molti altri fuggiaschi sono stati catturati (Radovan Karadzic per tutti). Poi c’è il Kosovo. La Serbia non riconoscerà l’indipendenza della sua ex provincia, su questo Tadic è stato fermo anche con la Clinton e sul tema sono d’accordo tutte le forze politiche, senza eccezioni. La stampa amplifica i risultati della diplomazia forsennata del giovane ministro degli Esteri Vuk Jeremic, in tour permanente per propagandare le sue buone ragioni: "Anche Andorra sta con noi". Scatenando l’ironia proverbiale dei belgradesi: "Ehi su col morale, abbiamo al nostro fianco Andorra". Al di là delle risate amare, il Kosovo è il grimaldello col quale i nazionalisti riescono a insinuare dubbi sul nuovo corso. Suonano una sirena obsoleta che non troverebbe orecchie se non ci fosse una congiuntura economica sfavorevole.
Dal 2008 i salari sono diminuiti tra il 20 e il 30 per cento. Un professore universitario guadagna il corrispettivo di 600 euro, un operaio tra i 300 e i 400. Il prezzo della verdura è aumentato del 66,7 per cento in un anno e in molte città non si sa ancora quando potrà partire il riscaldamento a causa dei debiti accumulati da privati e società. L’inflazione ha raggiunto le due cifre, 10 per cento. La Fondazione Fridrich Ebert ha fatto un sondaggio chiedendo di esprimere un voto da uno a cinque sul tenore di vita a seconda del periodo storico. Con Tito il voto medio è 4, con Milosevic è 2, lo stesso di oggi. Secondo i cittadini chi governa davvero è il crimine, 23 per cento; il presidente guadagna solo il 18 così come i proprietari di grandi compagnie e il 70 per cento ha paura di patire la fame. Quanto alle privatizzazioni, il 44 per cento le reputa "puro saccheggio" e solo il 3 per cento crede che siano state fatte come si deve. L’impressione generale è che abbiano favorito imprenditori vicini alla politica. Vecchio problema. Una stima vuole che un terzo del Pil - 31,5 miliardi di euro - sia nelle mani di non più di dieci persone. Milan Jankovic, 4 miliardi, è il più ricco grazie al commercio, anche all’estero delle pentole Zepter. Di Miroslav Miskovic, proprietario di Delta Holding, secondo posto, si dice che detti le leggi da approvare. Nelle sue mani ci sono quasi tutte le catene di supermercati Maxi, Tempo, Pekabeta, più fabbriche di alimentari. A scendere nell’ordine ci sono Milan Beko, che ebbe un ruolo chiave nell’affaire Telecom Serbia e ha saputo riciclarsi anche col regime attuale, il re dello zucchero Miograd Kostic, Predrag Rankovic Peconi (latte e olio).
Il governo cerca di racimolare soldi dove può. Sta sequestrando tutti i beni di Bogoljub Karic (compresa la Ferrari del figlio), già sodale di Milosevic, poi in politica per conto proprio e ora latitante. Le difficoltà dell’economia fanno riaffiorare tentazioni autarchiche contro le euroburocrazie. Il consenso alla Ue aveva toccato il massimo (65 per cento) alla fine del 2009 quando ai serbi è stato concesso di entrare nell’area Schengen senza visto. Adesso è sceso al 58 per cento. Percentuale che può preoccupare solo chi ha un passato così ingombrante ma che ha sollecitato una divertita osservazione di Catherine Ashton, l’Alto rappresentante per la politica estera della Ue: "Vi sembra poco? È comunque assai di più dei consensi che ha l’Europa in diversi paesi". A Belgrado l’hanno considerato un viatico per salire sul treno che parte in direzione Bruxelles. Ancora qualche sforzo, Serbia: basta gettare da quel treno qualche cadavere che sta ancora custodito nell’armadio.