Varie, 22 ottobre 2010
SERBIA PER IL FOGLIO DEI FOGLI DEL 18/10/2010
«Là sanno che dalla guerra del calcio alla guerra civile c’è solo una questione di tempo, e di occasioni propizie» (Adriano Sofri) [1]: martedì a Genova la partita tra Italia e Serbia, valida per l’accesso alla fase finale degli Europei del 2012, è iniziata in ritardo per essere sospesa dopo pochi minuti causa le intemperanze di 1.600 tifosi della squadra ospite. [2] Enzo Bettiza: «Il momento culminante del raptus mitico lo si è visto nel momento in cui hanno dispiegato la bandiera albanese, con l’aquila bicipite, dandola alle fiamme e tracciando minacciosamente nell’aria il segno ortodosso delle tre dita: “Serbia divina”, “Montenegro sacro”, “Bosnia fedele”». [3] Giulia Zonca: «È il simbolo nazionalista, la croce ortodossa che i nostalgici spacciano come riassunto della Grande Serbia: esiste solo nella loro testa ma la propagandano ovunque, soprattutto negli stadi». [4]
Il calcio è un dichiarato megafono e non è un caso che la guerra dei Balcani sia iniziata durante una partita di pallone. Zonca: «Dinamo Zagabria-Stella Rossa, 13 maggio 1990. Prima scintilla di un odio etnico che ancora oggi è difficile tenere a bada. I gruppi organizzati sono il covo degli estremisti, lì dentro mischiano tutto: rivendicazioni, rabbia e follia. Ci mettono la costante protesta contro il Kosovo che non riconoscono come stato indipendente, ci mettono l’odio verso l’eterno nemico, l’Albania». [4]
In termini calcistici quello di martedì è stato uno dei più pesanti autogol sferrati dalla Serbia contro se stessa nel momento in cui un governo responsabile, guidato dal presidente moderato Boris Tadic, si prepara a ricevere il 25 ottobre dal Consiglio europeo il via libera della domanda d’adesione di Belgrado all’Ue. Bettiza: «Gli ultrà, politicamente confusi e trasversali, non solo di destra estrema, certo non rappresentano la Serbia attuale nella sua interezza e nella sua resipiscente rinascita europeista. Costituiscono lo scarto balcanico, irrazionale e passionario, lasciato alla maggioranza dei serbi pensanti dal nazionalcomunista Miloševic, dal poeta pazzo Karadžic e dal criminale di Srebrenica Mladic, tuttora in contumacia protetta». [3]
I “tifosi” sono da sempre i volontari delle forze più estremiste della polizia segreta, non riformata dai tempi di Milosevic. Biljana Srbljanovic: «Nel momento in cui la Serbia vuole dimostrare di essere pronta per la candidatura ufficiale all’Ue, proprio quando l’avvocato della famiglia del premier assassinato Zoran Djindjic rivela il retroscena politico dell’attentato, ecco che inizia l’escalation della violenza. Chi ha ordinato l’assassinio di Djindjic vuole allontanare la Serbia dall’Europa, per tutelarsi dal Tribunale dell’Aja. È una cerchia che conta leader di partiti, alti prelati e ricercati dall’Aja. Ogni cittadino a Belgrado sa elencarne i nomi. Di rado, però, osa pronunciarli ad alta voce, temendo per la propria vita». [5]
«Avanti Europa, addio Kosovo», si scrisse quando nel febbraio 2008 Boris Tadic vinse le elezioni serbe contro l’ultraradicale Tomislav Nikolic. Francesco Battistini: «Passa il nazionalista moderato e la Serbia sceglie su quale tavolo puntare il futuro: una volta per tutte, basta col ciarpame degli anni di Milosevic, il Paese non entrerà (ancora) nell’Unione europea ma, almeno, tenta d’uscire dal suo tenebroso passato. Scoppia la festa al Partito democratico e in piazza della Repubblica, alle dieci di sera. Bandiere dell’Europa che sventolano, trombe da stadio, fumogeni. Da Bruxelles arriva il comunicato della presidenza Ue: “La popolazione serba sembra aver confermato il suo appoggio al percorso democratico ed europeo del Paese”». [6]
Due anni e mezzo fa tutto fu deciso da 100mila schede, differenza dovuta al voto dall’estero. Battistini: «Ma alla fine gli orfani di Djindjic hanno cantato vittoria, quelli di Milosevic pianto la sconfitta: “Ha vinto Tadic – Nikolic è il primo ad ammettere in tv –, gli faccio i complimenti”. La direzione è presa: l’uomo del dialogo con la Ue rieletto presidente, il grande amico di Putin bocciato per la seconda volta. “Sì, abbiamo vinto”, compare due minuti dopo Tadic, e il tono è conciliante: “Di sicuro, parlerò con Nikolic. Dobbiamo restare uniti. Abbiamo vinto tutti insieme. Proseguiremo la nostra strada verso l’Europa. Non è tempo per festeggiare, dobbiamo lavorare duramente. Costruirci un futuro europeo, combattere la criminalità e la corruzione”». [6]
Nella Serbia di Tadic la teppaglia s’è saldata con gli ambienti più retrivi della destra nazionalista, come il movimento clero-fascista Obraz, che significa faccia, ma sta per “salvare la faccia”. Renato Caprile: «Ma qual è il vero obiettivo di questi cosiddetti tifosi? Secondo Milan Petrovic, redattore del quotidiano Blitz “in questo momento lo scopo degli ultrà è politico: creare quanti più problemi possibile a Tadic e al suo governo. E soprattutto un clima di instabilità che dovrebbe, nelle intenzioni di queste persone, portare il paese al più presto ad elezioni anticipate”». [7]
Domenica 10 ottobre, durante il gay pride di Belgrado, un migliaio di teppisti ha attaccato i poliziotti ferendone due in modo grave: professionisti del disordine, armati di molotov, sassi, coltelli e spranghe di ferro per difendere non si sa da chi e da cosa «l’onore della Serbia» per ore hanno tenuto in scacco le forze dell’ordine. Caprile: «Una barbarie pianificata nel dettaglio. Niente di inedito però, visti i protagonisti che sono quelli di sempre. Gli stessi che più volte hanno messo la capitale a ferro e fuoco, l’ultima nel luglio del 2008 per protestare contro la cattura del criminale di guerra Radovan Karadžic. E come se non bastasse slogan al vetriolo contro quell’“invertebrato” di Boris Tadic, il presidente che vorrebbe lasciarsi il passato alle spalle, e il ministro socialista dell’Interno Ivica Dacic per non essersi opposti a quella “vergogna”. E infine assalto squadrista al Parlamento e alle sedi del Partito democratico e socialista». [8]
«Se doveva essere una sorta di esame di maturità europeo, la mia Serbia lo ha fallito in pieno. Ciò che è accaduto oggi è indegno di un paese civile», ha commentato uno dei portavoce del movimento gay serbo. [8] Durante gli scontri è stato arrestato Mladen Obradovic, fondatore di Obraz. Caprile: «È lui al di là di ogni ragionevole dubbio che ha coordinato la sassaiola anti Gay Pride. A casa sua c’erano le liste, complete di nomi, dei sei gruppi d’attacco. Ma chi lo ha finanziato? La mafia, secondo gli analisti del quotidiano Press. I monopolisti che vedrebbero l’ingresso in Europa della Serbia come il fumo negli occhi. Gli ambienti più conservatori della Chiesa ortodossa, quella che fa capo al metropolita montenegrino Amfilohije, che ha osteggiato in ogni modo il raduno omosessuale, secondo altri». [9]
Se cade Tadic, chi può prenderne il posto? Caprile: «Secondo gli ultimi sondaggi in caso di elezioni anticipate potrebbe esserci un testa a testa tra il partito democratico del presidente in carica e la costola fintamente progressista degli ex radicali di Tomislav Nikolic. Per ora nessuno si azzarda a puntare l’indice contro l’ex delfino del criminale di guerra Vojslav Seselj, anche se politicamente è l’unico che potrebbe trarre benifici da una crisi di governo». [9]
Gli avversari politici hanno soprannominato Nikolic “grobar”, ovvero becchino, per via del mestiere svolto prima di entrare in politica quando dirigeva il cimitero di Kragujevac. Da anni ripete che il suo è «un moderno partito nazionalista che rappresenta tutte le classi sociali, diciamo sul genere dei repubblicani negli Usa, anche se si batte a fondo contro le cattive idee. Per esempio quella di dare l’indipendenza al Kosovo, o di applicare leggi che aumentano la disoccupazione e diminuiscono i salari, o ancora di applicare alla povera Serbia assurde normative europee senza lasciarci decidere il nostro cammino e prima ancora di sapere se in Europa entreremo mai». [10]
Andasse al potere, Nikolic innesterebbe per la Serbia una pericolosa retromarcia. Giuseppe Zaccaria: «Il programma e già scritto: nei pochi giorni in cui ha occupato una posizione di potere (portavoce del Parlamento dall’8 al 13 maggio 2007, record nazionale di durata minima) “Toma” incontrò in tutta fretta l’ambasciatore russo e lanciò il progetto di una confederazione fra Russia, Serbia e Bielorussia “per controbattere l’egemonia americana ed europea”: il “Superstato”. Nel frattempo gli scenari sono cambiati e anche l’uomo ha subito un’evoluzione, uso ad alternare i toni paternalistici agli insulti da carrettiere dietro la rude maschera del nazionalista Nikolic ha lasciato crescere l’anima più duttile del politico compiendo due passi decisivi. Primo: staccare l’immagine dei radicali da quella di Voijlav Seselj, presidente del partito sotto processo all’Aja per crimini di guerra. Secondo: gettare un ponte verso il Partito Repubblicano, che dagli Stati Uniti non è parso del tutto sordo alle profferte del cattivo di turno». [11]
«Anche se non è un vero e proprio golpe, sicuramente siamo di fronte a un pericolosissimo colpo di coda di coloro, imprenditori e criminali che non si arrendono alla modernità». Sono parole di Slobodan Homen, alto funzionario del ministero della Giustizia serbo, dopo i fatti di Belgrado e Genova: «Penso a trafficanti d’ogni genere spaventati da un regime di concorrenza che li spazzerebbe via. Abbiamo molti nemici: gruppi mafiosi, movimenti che si oppongono alla collaborazione con il tribunale dell’Aja, estremisti di varia natura e partiti d’opposizione che se anche non finanziano il disordine, certo potrebbero giovarsene». [9]
Nella società serba, dopo Milosevic, una discussione c’è stata, e voci di un’“altra Serbia” hanno preteso un esame di coscienza collettivo. Sofri: «Le autorità di Belgrado hanno fatto dei passi. Hanno ancora piedi di piombo. Hanno detto che si vergognano dei fatti di Marassi, e che si è trattato di un colpo deliberato al cuore della loro politica. È vero. Del resto i partiti dei criminali chiusi all’Aja – come quel Seselj che compare in aula per dire “Puttana” a una giudice, e per dire all’intera giuria che glielo può succhiare – hanno ancora tantissimi voti». [1]
Note: [1] Adriano Sofri, la Repubblica 14/10; [2] Massimiliano Nerozzi, La Stampa 13/10; [3] Enzo Bettiza, La Stampa 14/10; [4] Giulia Zonca, La Stampa 13/10; [5] Biljana Srbljanovic, la Repubblica 14/10; [6] Francesco Battistini, Corriere della Sera 4/2/2008; [7] Renato Caprile, la Repubblica 13/10; [8] Renato Caprile, la Repubblica 11/10; [9] Renato Caprile, la Repubblica 14/10; [10] Giuseppe Zaccaria, “La Stampa” 3/3/2006; [11] Giuseppe Zaccaria, La Stampa 22/1/2008.