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 2010  ottobre 22 Venerdì calendario

I PERICOLI DEL GIGANTISMO BANCARIO

Nei giorni scorsi il ministro dell’Economia s’è scagliato contro i bankster, la cui avidità ci ha precipitato nella crisi; di qui, ben oltre gli oneri per salvataggi, gigantesche perdite di risorse, competenze e redditi. Con disastri per le prospettive di vita per centinaia di milioni di persone nel mondo.
La dose di populismo è fisiologica: gridare al ricco untore aiuta, ed è in gran parte giustificato. I fatti, però, ci dicono anche altre cose, troppo trascurate, soprattutto dalla destra, di cui Tremonti è qualificatissimo esponente. Anzitutto che una delle grandi radici della crisi sta nel vertiginoso aumento delle disuguaglianze. L’1% più ricco dei cittadini Usa conseguiva storicamente, dal dopoguerra fino agli anni 80, circa il 10% dei redditi. Questa percentuale s’è poi impennata fino a sfiorare, prima della crisi, il 25%. Dei guadagni di produttività si sono appropriati i percettori di redditi alti; le classi medie e basse si sono indebitate sempre più, e alla fine la corda s’è spezzata. L’epicentro della crisi è stato negli Usa, ma anche in Italia le disuguaglianze sono cresciute molto negli ultimi trent’anni. Questa ignorata, ma potente, causa della crisi, è sempre lì, se non peggiorata; e le imprese che han saputo reagire, oggi non hanno bisogno di assumere, almeno in Italia. Il governo dovrebbe perciò adottare oggi misure — generalizzate e neutrali — di sostegno dei redditi bassi, e reperire fondi agendo, pur con gradualità, sulle età pensionabili; farebbe cosa buona nell’immediato, e anche giusta in prospettiva. È meglio per i nostri figli ricevere pensioni dignitose, ma da un’età che tenga conto di quanto è cambiata la vita da quando Bismarck le introdusse, che non pensioni di fame, da incassare quando potrebbero ancora lavorare a lungo.
Poi c’è il tema della poca concorrenza. La risposta liberale non deve puntare su sempre più micro-regolazione, ma sulla concorrenza, per ridurre i profitti finanziari da rendita. I bankster sono sì avidi e spregiudicati, ma non potrebbero mai pagarsi così ingenti compensi (quest’anno su Wall Street pioveranno 144 miliardi di dollari, l’1% del Pil Usa!) se le banche non ottenessero utili sproporzionati al loro apporto all’economia. La finanza è arrivata a prelevare quasi il 40% dei margini lordi delle imprese Usa pre-crisi; ciò sia per la facilità con cui, grazie all’assicurazione pubblica, anche implicita, le banche si finanziano, sia per il potere di mercato che detengono. I casi più evidenti di abuso sono i sussidi incrociati che le grandi banche attuano fra i diversi mercati, e l’oligopolio delle residue investment bank. Divenuto ancor più stretto per la falcidie di concorrenti legata alla crisi, esso esplica i suoi effetti specie nelle offerte di nuovi titoli azionari (Ipo), e nella trattazione di derivati fuori dai mercati regolamentati. Da questi ambiti vengono margini elevati e opachi, esempi cospicui dell’abuso di potere di mercato in finanza. Anche nelle Ipo — lo mostra Francesco Guerrera sul Financial Times del 12 ottobre — giocano i sussidi incrociati. Le banche Usa hanno condonato a Hilton parte dei suoi debiti, in cambio della promessa di ricche commissioni per la prevista Ipo di Hilton: la Fed (la banca centrale Usa), che ha sul groppone titoli di Hilton così svalutati (eredità del buco di Bear Stearns), se n’è accorta, e vuole la sua libbra di carne.
Basilea 3 ha definito i requisiti di capitale, ma non s’è ancora deciso che fare per le banche troppo grandi per fallire. Bisogna solo tagliarlo, questo nodo gordiano: chi è troppo grande per fallire è troppo grande e basta. Banca retail e banca d’investimento vanno separate. Dall’eccesso di dimensioni viene quasi solo danno: rendite oligopolistiche a danno di altri settori, perdita di professionalità specializzate (in Italia è sparita la competenza sui piani a medio termine delle imprese), difficoltà a gestire i rischi di entità troppo vaste e diversificate, costi per le finanze pubbliche chiamate a pagare il conto in caso di fallimento; caso che nessun ragionevole requisito di capitale potrà mai impedire. Si vedano, al riguardo, gli himalayani requisiti dettati dalla Banca centrale svizzera, prestatore di ultima istanza a banche troppo grandi per la pur ricca Confederazione. E se qualche piccolo Stato con grandi banche decidesse di lasciarle andare a ramengo, contando sul soccorso dei terrorizzati vicini per non tassare i suoi cittadini?
Ricordiamoci di Adam Smith. Essere per l’economia di mercato non vuol dire aiutare le grandi imprese esistenti, ma accrescere la concorrenza, far emergere chi è bloccato dall’abuso che le grandi fanno del loro potere di mercato. La politica assuma la sua responsabilità, e tiri dritto. Chi vuole un traffico ordinato, poi, non confiderà mai negli automobilisti.
Salvatore Bragantini