Giulio Sapelli, Corriere della Sera 22/10/2010, 22 ottobre 2010
L’INSIDIA DEGLI SCONTRI IDEOLOGICI SULLE RELAZIONI INDUSTRIALI MODERNE
Il mondo del sindacalismo internazionale si sta trasformando con grande rapidità nel corso della crisi economica. In Germania, per esempio, la rivendicazione salariale è spesso sostituita da accordi sul tempo parziale di lavoro. E cresce il ruolo di cogestione dei sindacati nelle partite di ristrutturazione industriale al fine di limitare i tagli dell’occupazione e salvaguardare i diritti della rappresentanza operaia.
Negli Usa il processo, invece, è diverso e più radicalizzato: l’Afl-Cio, il grande sindacato nordamericano, ha subito da un paio d’anni una scissione (Change to Win) che in termini europei definiremmo di sinistra e che mira a radicare maggiormente il sindacato nei posti di lavoro con l’obiettivo di estendere la contrattualizzazione a tutti i lavoratori, garantendo loro assistenza sanitaria e diritti di rappresentanza altrimenti negati. Change to Win si è rapidamente sviluppato ma senza far sì che si perdesse di vista la necessità di un lavoro unitario. Si pensi che nel 2009 l’Afl-Cio, Change to Win e Working America (l’associazione dei lavoratori immigrati) hanno costituito un comitato di coordinamento per affrontare insieme i problemi della crisi e questo ha riscosso un grande successo.
Insomma, tutto sta cambiando e le vie sono ancora quelle intraviste agli albori della globalizzazione: da un lato un sindacalismo cogestionario radicato nella contrattazione che affronta direttamente le problematiche del welfare senza delegarle allo Stato e, dall’altro lato, un sindacalismo più antagonistico e partecipativo che mira solo a estendere il conflitto. L’esempio francese è quello più tipico a questo riguardo, se pensiamo che la Francia è il Paese con la sindacalizzazione relativa più bassa al mondo, ma con una conflittualità allargata tra le più forti a livello internazionale. L’ago della bilancia pende tuttavia a favore del sindacalismo cogestionario, relegando ai margini i sindacati conflittua-listici.
È in questa luce che vanno inserite le vicende della Fiom italiana e il radicalismo ch’essa esprime, secondo una tradizione massimalistica tutta nazionale che ha avuto la sua acme nell’autunno caldo e nei frutti devastanti ch’esso ancor oggi rinverdisce impedendo al Paese di avere un sistema moderno di relazioni industriali. Non servono a nulla, in questa luce, anzi, sono controproducenti, gli attacchi ideologici. Anche quelli teoricamente sacrosanti del ministro Sacconi in occasione della recente manifestazione romana della Fiom. Non fanno che alimentare il conflitto ed esacerbare gli animi degli esponenti di una logica non degli interessi (la contrattazione), quanto invece delle identità e delle solidarietà collettive, che, per loro natura, non sono negoziabili. Infatti, ciò che si sta formando a sinistra della Cgil è un sindacato rosso che abbiamo già visto divampare altre volte nella storia d’Italia e che sfida la Cgil come, per esempio, Change to Win ha sfidato l’Afl-Cio. Ma solo l’attenta ricomposizione dal basso della divisione può, allora, portare a sconfiggere le identità non negoziabili: non le polemiche esterne al sindacato. Il pericolo, infatti, è che la situazione si radicalizzi sempre più con quella violenza che sta venendo alla luce e che va stroncata in primo luogo dalle autorità. Alle istituzioni politiche spetta, invece, comprendere che siamo dinanzi a un processo storico che è impossibile esorcizzare e che va combattuto con le conquiste che l’altro sindacato sa realizzare sul piano contrattuale, piuttosto che su quello della polemica ideologica. Questa dovrebbe essere, invece, sviluppata con coraggio dalla Cgil, se non vuole disgregarsi senza speranza. È questa la responsabilità più grande, terribile, di Epifani, quando partecipa al comizio dell’unica «sua» categoria che non firma gli accordi contrattuali invocando invece lo sciopero generale. Rimanere con sangue freddo convinti che le conquiste della partecipazione vinceranno è, allora, una necessità vitale. Ancora una volte l’esempio nordamericano deve far scuola.
Giulio Sapelli