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 2010  ottobre 22 Venerdì calendario

IL DANUBIO AVVELENATO DALLE NUOVE DESTRE

Prima o poi, con chiunque stiate parlando, si arriva al calcio come spiegazione del mondo. Fosse la partita del 1° novembre 2008 tra lo Slovan Bratislava e il Dac di Dunajská Streda, cittadina slovacca a maggioranza etnica ungherese. Quando i tifosi di origine magiara si presentarono sventolando le bandiere bianche e rosse con le frecce crociate, simbolo dell’ultranazionalismo. E quelli slovacchi li picchiarono a sangue, mandandone oltre 60 all’ospedale. Oppure uno dei tanti derby tra il Ferencvàros, celebre squadra della capitale dell’Ungheria, e l’MTK, il club di Budapest che affonda le sue radici nella comunità ebraica, quando i gruppi neonazisti che guidano e condizionano le tifoserie della prima intonano regolarmente il loro canto di battaglia: «I treni partono», gridano i caporioni. «Per Auschwitz», risponde il coro degli idioti.
O ancora, ma per dimostrare un’altra tesi, la partita di Europa League del 30 settembre scorso a Vienna tra il Rapid e il Besiktas Istanbul. Nessun incidente. Hanno vinto gli ospiti per 2-1, espugnando metaforicamente la città sul Danubio, riuscendo dove nel 1683 aveva fallito Ka r a Mustafa Pasha. «C’erano tre turchi per parte. E quelli del Rapid giocano anche nella nazionale austriaca», fa notare Karl Krammer, consulente politico, ex braccio destro del cancelliere Franz Vranitzky.
Come le bravate di Ivan Bodganov sugli spalti di Marassi hanno riproposto non solo il tema della violenza nel calcio, ma anche e soprattutto quello del torvo nazionalismo serbo sempre incombente, anche altrove negli stadi si specchia lo Zeitgeist che impregna vasti pezzi d’Europa: il fascino della Gemeinschaft, la comunità, mette in crisi la Gesellschaft, la società. E ovunque si cerca un nuovo nemico, sul quale scaricare colpe e responsabilità.
Dopate da paure antiche e nuove, aiutate da vecchi fantasmi che la Guerra Fredda aveva vulcanizzato, spinte da una modernità che travolge ogni certezza, avanzano le destre populiste, dalla penisola scandinava alle frontiere balcaniche. Il rifiuto dell’Islam mette le ali a nuovi tribuni in Olanda, Svezia, Danimarca, Norvegia e tinge di bruno perfino Vienna la Rossa. Mentre il seme velenoso antisemita e anti-rom e i grumi dell’odio etnico, che nei Paesi del Danubio i regimi comunisti avevano congelato per decreto senza mai affrontarli, aprono il campo a forze politiche estremiste come lo Jobbik di Gábor Vona, il leader dell’opposizione ungherese che ama le uniformi, vuole rivedere i confini del 1920, segregare 2 milioni di zingari e denuncia una cospirazione ebraica.
Al Café Shiraz, ristorante persiano nel IX distretto di Budapest, è una serata come le altre. Il proprietario è un iraniano, Alì. Dicono che finanzi Jobbik. Certo è che in aprile, la sera della vittoria elettorale che li ha portati al 16,7% dei voti, Gábor Vona e i suoi hanno festeggiato qui. Mi avvicino a una coppia giovane. Mi guardano con sospetto quando chiedo se posso far loro qualche domanda. Poi si sciolgono: «Sì, abbiamo votato Jobbik, perché l’Ungheria dev’essere degli ungheresi. Anche di quelli che vivono fuori dai nostri confini» dicono con un sorriso.
È sotto le sontuose volte a crociera opulente e dorate del Parlamento ungherese che incontro Marton Gyoengyoesi, numero due di Jobbik, economista che ha lavorato per banche e aziende multinazionali. Parla un inglese perfetto, veste con gusto, difficile intravedere dietro il suo gessato blu uno scalmanato estremista antisemita. Definisce il suo partito di «opposizione costruttiva». Detto altrimenti, nell’Ungheria che ha regalato una maggioranza di due terzi all’eroe del 1989, l’ex dissidente anti-comunista Viktor Orban e al suo partito di destra Fidesz, Jobbik si vuole come pungolo ultra-nazionalista al premier.
E infatti ha applaudito l’istituzione del giorno della memoria, il 4 giugno, quello che ricorda la tragedia nazionale del Trattato del Trianon che nel 1920 privò l’Ungheria, sconfitta nella I Guerra Mondiale, di due terzi del suo territorio. Così come ha votato la legge che estende automaticamente la nazionalità ungherese anche a coloro, che vivono fuori dai confini nazionali (sono oltre 2 milioni tra Slovacchia, Romania e Serbia) ed è già causa di forti tensioni con Bratislava e Belgrado.
Eppure, anche Gyoengyoesi accredita con disinvoltura la cospirazione del capitale ebraico: «Abbiamo semplicemente sollevato il problema. È stato lo stesso presidente israeliano Shimon Peres ad ammettere in un discorso che aziende israeliane si sono comprate l’Ungheria. Siamo antisemiti se parliamo apertamente di una distorsione o di una colonizzazione ebraica della nostra economia?».
«Jobbik è antisemita», dice Anton Pelinka, docente di studi nazionalisti all’Università di Budapest, secondo il quale il vero problema è la sua capacità di condizionare il governo: «Orban non voleva nemici a destra e così ha cavalcato il nazionalismo, ma l’operazione non è riuscita: Vona è più forte di prima e proverà sempre a scavalcarlo con posizioni estreme».
A vederla, Budapest sembra lontana da pulsioni e nostalgie estremiste. I caffè sono teatro di discussioni appassionate o di letture assorte. I pensionati giocano a scacchi nelle terme di Szecheny. Una folla cosmopolita e colta colma teatri e sale di musica. La sinagoga sulla Dohany è la più grande d’Europa: domenica scorsa una celebre soprano, Andreina Rost, vi ha fatto il tutto esaurito con un recital di canzoni gitane, ebraiche, ungheresi. Al concerto c’era anche la moglie di Viktor Orban.
«Un gesto importante — dice Janos Betlen, giornalista della televisione di Stato, già dissidente del regime di Kadar —. Forse c’è un po’ di allarmismo in giro». Poi però parla preoccupato della «cultura nazionalista, razzista e antisemita che invade e deborda sulla rete». Ricorda gli 8 zingari ammazzati da un gruppo di balordi, che rischiano di fare da esempio. Ammette che la retorica di Vona, fondatore mai pentito della Guardia Ungherese, vere SA del partito ora fuorilegge, possa avere conseguenze nel lungo periodo. Come il fucile di Cechov, appeso al muro che sparerà per forza al terzo atto. «Il pericolo che il veleno nazionalista possa allontanare il Paese dall’Europa esiste, qui come in Olanda o in Austria. Ma dobbiamo ricordare che quando nel 2004 l’Ungheria entrò nell’Ue, la promessa era quella di far parte dell’Europa del benessere. Da allora per la maggioranza della popolazione le cose sono soltanto peggiorate, la vita si è fatta più difficile».
Paolo Valentino