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 2010  ottobre 27 Mercoledì calendario

IO NON HO PAURA"

[Minatrici]
Patrizia e Valentina per andare al lavoro prendono l’ascensore. In sei minuti scendono di quasi 500 metri, da più 100 sul livello del mare a meno 373, fino al cuore dell’ultima miniera di carbone della Sardegna, la Carbosulcis di Monte Sinni, vicino a Portoscuso. Sono le uniche minatrici italiane a lavorare nel sottosuolo, le uniche donne a cimentarsi in un mestiere durissimo, storicamente riservato agli uomini. Un mestiere pericoloso, come racconta l’avventura a lieto fine dei 33 minatori cileni di San José.
Patrizia e Valentina si muovono nel buio più profondo delle gallerie. Si fanno luce con la lampada sul casco, zavorrate dal peso dell’autosalvatore, l’erogatore d’ossigeno per le emergenze. Camminano con i grossi scarponi fra le zone di scavo delle gallerie e di taglio e raccolta del carbone. Quando escono sono nere come i loro colleghi nelle foto di inizio secolo.
Tutte e due hanno avuto padri minatori che si sono ammalati di silicosi. Ciononostante amano il loro lavoro, e sono orgogliose di far parte dell’ultima realtà produttiva della tradizione mineraria sarda. Questo è il racconto di una loro giornata, segnata dalla fatica di essere donna in un mondo di uomini.
SCARPONI E TRUCCO
La sveglia di Patrizia Saias, 49 anni, divorziata da 8, suona implacabile alle 4 e 45. Nel suo appartamento di Iglesias le figlie Eleonora di 19 anni e Francesca di 13 sono ancora nel pieno del sonno. Si alza, si lava, fa colazione. Esce prima delle 6, e alle 6 e 10 è già al lavoro. Scende nel sottosuolo alle 7 oppure alle 8, dopo essersi cambiata e attrezzata in lampisteria. «Mio padre prima di scendere in miniera si fasciava i piedi con delle pezze. Quando sono venuta a lavorare qui mi ha detto: ricordati sempre di metterti due paia di calze. È un consiglio che ho sempre seguito: gli scarponi da miniera ti uccidono i piedi».
Valentina Zurru, 43 anni, single, anche lei di Iglesias, la sveglia la mette alle 5 e 27, «numero fortunato perché è il giorno di paga, e poi quei 3 minuti mi servono per capire che mi devo alzare, perché per me è un trauma». Si lava, si mette un filo di matita e il rossetto.
«Qualcuno mi ha chiesto: ma perché ti metti il rossetto per scendere in miniera? Io sono così, mi metto il rossetto, e se scendo in miniera non è che me lo devo togliere. Fa parte della mia persona. Se poi esco sporca, non me ne frega niente». Non fa colazione per non perdere tempo, ma porta con sé parecchi viveri. Esce alle 6 e 13, cioè in ritardo, e deve correre per arrivare entro le 6 e 30 alla miniera, che dista una quindicina di chilometri. Arrivata in ufficio fa colazione. Scende nel sottosuolo alle 8 oppure alle 9.
Patrizia è tecnico nel reparto sicurezza e controlli ambientali. Suo compito nel sottosuolo è controllare la ventilazione delle gallerie, verificare l’eventuale presenza di gas, di polveri inalabili o infiammabili. Per farlo spesso deve stare proprio dietro alla tagliatrice, la macchina che scava il carbone, e quando esce è tutta nera. Ma non usa nessuna protezione particolare: «Tanto se metti la maschera ti viene l’affanno, che può provocare l’asma».
Spesso le capita di girare per le gallerie anche sola, per effettuare campionamenti e monitoraggi. «Una volta mi si è spenta la luce sul casco, che era difettosa. Era buio pesto ma non mi sono lasciata prendere dalla paura. Dopo un po’ ho ritentato e la luce si è riaccesa. In questi casi penso che c’è Santa Barbara, patrona dei minatori, che mi sta proteggendo». L’orario di risalita dipende dalla situazione, può essere mezzogiorno o anche le 3 del pomeriggio.
Valentina è tecnico di bullonamento, il metodo più moderno e sicuro per sostenere le gallerie, che consiste nell’inserimento di barre di acciaio perpendicolari alla parete. Quando arriva nel sottosuolo fa la lettura degli estensimetri, i dispositivi che servono a monitorare la stabilità delle gallerie, spostandosi con la scala per raggiungerli. Ma soprattutto segue la perforazione, l’inserimento dei bulloni e il loro consolidamento.
«Non maneggio la perforatrice, ma controllo che le operazioni siano svolte in modo corretto, e c’è sempre da aggiustare il tiro». Per farlo deve stare vicino alle perforatrici, accanto agli operai, sia dove si scavano nuove gallerie sia dove si taglia il carbone. Quindi spesso esce nera, «e se succede qualcosa gli operai possono andarsene, io devo rimanere». Risale in superficie di solito a mezzogiorno e mezzo.

LA SERPE E LA PRECISINA
Per Patrizia la miniera è una passione. «Mi piace tantissimo il mio lavoro. Non so spiegare perché. Certo mi gratifica il fatto di poter controllare se gli ambienti di lavoro sono sicuri per il personale. E poi mi è sempre piaciuto andare in grotta, è un mondo che mi ha sempre affascinato. Sono l’unica in famiglia che ha questa passione. Quindi scendere in miniera non mi ha mai dato assolutamente fastidio, e giro anche molto da sola. Mi chiedono se ho paura, ma non ne ho mai avuta».
Per Valentina la miniera è una missione. «Sono una che si impunta, che ama le sfide. Se c’è qualcosa di pericoloso da fare, e un uomo la fa, io la faccio anche meglio. Mi dà soddisfazione, altrimenti mi sento che ho mancato, che sono stata carente. Era così anche a scuola, dicevo: devo essere io la prima, la più brava. Forse studiavo più per primeggiare che per imparare. Infatti ho preso 60 alla maturità, e ho anche vinto una borsa di studio. Lavorare in miniera mi piace, è come fare un Camel trophy, un’avventura ogni volta. La vivo così. È una forma di ostinazione, abbandonare mi sembra sia come gettare la spugna. Mi sto arrendendo io? Non sia mai».
Patrizia è soprannominata dai colleghi maschi «signora precisina» per lo zelo che mette nel suo lavoro. «Se mi assegni un lavoro voglio farlo nel migliore dei modi. Infatti mi affidano anche compiti di precisione. Ma questo può voler dire, specie per gli operai del nostro o anche di altri reparti, lavorare di più, e a loro può dare fastidio. Come donna lavorare lì dentro è molto difficile. Sei a contatto con un ambiente maschile che non gradisce ricevere ordini da una donna. Devi stare molto attenta. Per esempio capita che mi dicano: te lo porto io questo strumento. E io rispondo: no, perché me lo devi portare tu? Sono qui per questo, lo devo fare io. Oppure mi aprono lo sportello di un veicolo. A me dà fastidio, loro dicono: ma io voglio farti una cortesia... E io rispondo: ma io non te l’ho chiesto, ho le mani e voglio aprire da me».
Anche Valentina ha i suoi soprannomi: «Mi danno dell’orso, della strega, della serpe. Sono una persona molto chiusa, sto molto per conto mio, non soffro la solitudine e, se le condizioni sono avverse, trovo più stimolo. Quando vedo qualcosa che non va bene, prima lo dico a voce. Ma se vedo che non gliene frega niente a nessuno faccio una relazione, quindi mi vedono come una rompiballe. Se un bullone non è sicuro io non lo passo per buono, deve essere rifatto. All’inizio lo pongo sotto forma di consiglio, perché agli operai non piace obbedire a una donna. E poi mi dà fastidio se mi trattano da donna, cioè per come la vedono loro, da essere inferiore. Come se fossi una poverina che non ce la fa, ma io ce la faccio più di loro. Non avrò la forza muscolare – a parte che ho anche quella – ma ho quella di voler riuscire: anche se non ce la faccio, mi ostino e poi ce la faccio».

COME MIO PADRE
Una volta tornata in superficie, Patrizia inserisce in un file i dati rilevati nel sottosuolo. Poi fa la doccia e va in mensa. In teoria esce per le 15 e 30, «ma capita anche di uscire alle 7, faccio molto straordinario». Il suo stipendio è di 1.300-1.400 euro, che con straordinari e rimborsi per il viaggio diventano circa 1.700. Quando rientra a casa la attendono nuove fatiche. «Conciliare il lavoro da minatrice con la famiglia è complicato. Arrivo a casa e sono stanca. Ma c’è da fare la spesa, la lavatrice, mettere in ordine, magari c’è mia mamma che chiama e mi chiede di comprarle qualcosa, più le figlie che dicono: ma con noi non resti mai! E poi se a loro succede qualcosa mentre sono nel sottosuolo non è che posso uscire immediatamente. È successo che hanno chiamato in miniera da scuola, e mi sono spaventata. È un problema, perché non ho nessuno che mi aiuta».
Valentina in ufficio scarica i dati, compila il giornale di lavoro, invia comunicazioni se necessario. Dopo la doccia, alle due e mezzo, va in mensa. «Io dico che si mangia bene. Fanno anche cose particolari, tipo le cozze, oppure tonno fresco quando c’è la campagna del tonno a Portoscuso. Ma se qualcuno si siede al mio tavolo gli faccio gli occhi storti, sono una che mangia e voglio stare serena».
In genere esce dal lavoro alle 17, anche se potrebbe staccare due ore prima. Da uno stipendio base di 1.400 euro raggiunge i 1.800 con i rimborsi del viaggio e gli straordinari. Quando torna a casa fa molto sport: corsa, mountain bike, salto della corda. «Mi ritengo fortunata, perché anche se questo lavoro è considerato da molti schifoso a me piace, e avere uno stipendio è importante. Purtroppo però mi accorgo che mi consuma. La polvere di carbone si infila nella pelle, e non è che riesci a lavarla... I capelli sono sempre schiacciati dal casco, la strumentazione per le letture pesa molti chili che ti porti sulle spalle, i piedi con gli scarponi soffrono, si gonfiano».
INNAMORATE DEL BUIO
Il padre di Patrizia è morto da poche settimane. A parlarne le viene il groppo in gola. «Aveva la silicosi, che peggiorava con l’andare del tempo. Non ha mai avuto problemi di cuore, ma è stato proprio il cuore alla fine che non ha retto il deficit polmonare». Eppure la malattia del padre non l’ha dissuasa dal fare la minatrice. Lo stesso mestiere che faceva il nonno materno, mentre la nonna era cernitrice, separava il minerale all’esterno di una miniera. «Forse perché sono un’incosciente. O forse perché questo lavoro mi piace talmente tanto... Mio padre era sempre preoccupato per il mio lavoro in miniera. Mi diceva che pensava a me quando mi alzavo la mattina d’inverno, prendevo la macchina e andavo al lavoro. Aveva paura per me».
Anche l’anziano padre di Valentina ha la silicosi, con un’inabilità dell’80 per cento, cui si è aggiunto il morbo di Alz¬heimer. «Una delle due giornate libere la dedico all’assistenza a mio padre. Non lo si può lasciare solo nemmeno di notte». Ma la malattia del padre non ha influito sulla scelta di lavorare in miniera. «Le mie zie mi dicono: poverina... Ma io mi ritengo fortunatissima, ci sono miei ex compagni di scuola che sono disoccupati. Anche se un fatto negativo è che la mia esperienza non è utilizzabile altrove. Non ci sono altre miniere di carbone in Italia. Questo è un handicap».
Patrizia e Valentina vanno a dormire piuttosto tardi, verso mezzanotte. Restano poche ore di sonno prima di una nuova giornata nel sottosuolo. Nessuna delle due si sente tranquilla circa il futuro della miniera, di cui da tempo si dice che sia sul punto di chiudere. I 470 minatori e le loro famiglie sperano che Carbosulcis sopravviva, che non faccia la stessa fine di tutte le altre miniere del Sulcis e dell’Iglesiente che nel dopoguerra davano lavoro a oltre 25 mila persone. A sperare sono anche Patrizia e Valentina, innamorate delle loro gallerie buie dove, lontano dalle tagliatrici, i pallidi grilli cavernicoli cantano come in un campo fiorito d’estate.