Alberto Piccinini, Alias - il manifesto 16/10/2010, 16 ottobre 2010
INSIEME SUL PIANETA NERO
L’unico funerale al quale Miles Davis partecipò, a parte il proprio, fu quello di Jimi Hendrix. Scese vestito di nero da una delle 24 limousine parcheggiate in fila di fronte alla Dunlap Baptist Church di Seattle, il primo ottobre 1970. Il manager di Hendrix, l’inglese Mike Jeffreys, aveva organizzato tutto. Pagati i voli da New York, Los Angeles, Londra, per musicisti, giornalisti, roadie, impresari. Pagate le stanze all’Holiday Inn dell’aeroporto, dove si svolse quello che il giornalista Al Aronowitz descrisse come «un baccanale sulla tomba di Jimi».
Il trombettista aveva viaggiato sul volo da New York. Mai a suo agio tra più di dieci persone, divorato dalla solita ossessione per la coolness, aveva preferito scendere in una suite del Plaza. Col parrucchiere Vinnie, giusto per capire il tipo, e una momentanea fidanzata: Jacki, casualmente conosciuta all’aeroporto. L’anno prima Davis aveva interrotto il breve matrimonio con la 24enne modella e cantante Betty Mabry, la «ragazza del Kilimanjiaro» che aveva dato il suo volto alla copertina dell’ultimo album jazz ortodosso della sua lunga carriera, e che - soprattutto - lo aveva introdotto nel giro dei rocker neri più radicali: Sly Stone e Jimi Hendrix.
Era stata la gelosia per Betty a spingerlo verso Hendrix. Una specie di crisi di mezza età, forse la chiacchierata storiella tra il chitarrista più bravo di tutti e la sua bellissima moglie coll’afro sulla testa, una dea del black power. Nel 1975, nelle vesti di cantante sexy-funk lei aveva inciso un pezzo «femminista» intitolato He wasa bigfreak, ridicolizzando il suo uomo che amava farsi frustare con una cinta turchese. Qualcuno ci aveva visto un ritratto non proprio lusinghiero di Miles Davis. Il jazzista, che teneva alla sua reputazione quanto alla sua leggendaria collezione di occhiali scuri, ribattè piccato che Betty, semmai, si riferiva a Hendrix.
Tutto il breve rapporto tra il 46enne Davis, che già allora poteva riempire due capitoli di un qualsiasi libro di storia della musica, e il 27enne Hendrix, nuovo sciamano elettrico piovuto da marte (dissero di lui: «sarebbe diventato il Miles Davis della sua generazione») fu costellato da piccole cattiverie. Come la volta che il trombettista non si presentò a un affollato party nella sua casa di New York, lasciando a Hendrix un bigliettino con sopra scritto un tema musicale. Il chitarrista, che non sapeva leggere la musica, ne era rimasto costernato.
Tra il 1969 e il 1970 Davis e Hendrix entrarono nello stesso giro di bella gente, musicisti radicali afroamericani, a New York. Frequentavano le stesse feste, si trovavano a cena assieme, bazzicavano la stessa boutique del Lower East Side. Giubbotti, cinture, pantaloni. Rigorosamente in pelle. La boutique era della moglie di Alan Douglas, produttore delle riprese di Woodstock, che ebbe la parte principale nel tentare uno di quelle leggende incompiute che ancora aleggiano sulla storia della musica del secolo scorso: la collaborazione discografica tra Miles Davis e Jimi Hendrix.
In generale Hendrix cominciava a sentirsi strette, anche un po’ cialtrone, le sue esibizioni in trio con gli Experience. Il chitarrista era pressato in tutti in modi dal manager Mike Jeffreys per non abbandonare la strada che l’aveva portato al successo (e molti videro in questo durissimo scontro uno dei motivi della sua misteriosa fine). Viveva sempre più come un limite il suo essere autodidatta. Marionetta di un ingranaggio (bianco) che non poteva controllare. I tempi stavano cambiando. Le Black Panther venivano a trovarlo in camerino dopo i concerti, chiedendogli di sostenere le toro attività. E nell’estate del 1969, a cavallo dell’esibizione di Woodstock, Hendrix si trasferì in una casa-comune da quelle parti. Liquidato il trio con Mitch Mitchell e Noel Redding, prese a frequentare musicisti afroamericani di esperienza jazzistica, come Roland Kirk, Sana Rivers, il pianista Mike Ephron.
Suonava notte e giorno con loro, in lunghe jam di alcune delle quali neppure è rimasta traccia registrata. Aveva battezzato la sua comune creativa Sky Church, chiesa del cielo. Con alcuni dei suoi nuovi compagni di viaggio salì sul palco di Woodstock: il bassista Billy Cox, il chitarrista Larry Lee, i percussionisti Gerry Velez e Juma Sultan. Solo per una suprema quando involontaria cattiveria la rudimentale registrazione dell’esibizione di Woodstock - una delle più celebri, quella che termina con la devastazione dell’inno americano - ha fatto scomparire nel silenzio il tappeto percussivo di tutta la Band of Gypsys, come fu battezzato il gruppo, salvo la batteria do Mitch Mitchell.
Alan Douglas, trovata l’idea di una collaborazione con Miles Davis, aveva fatto le cose per bene. Aveva convinto Gil Evans - arrangiatore di alcuni dei capolavori di Davis a curare la regia della cosa, anche per smussare eventuali problemi di ego in sala di registrazione. Evans, come tanti altri jazzisti, teneva in grande considerazione Hendrix. Lo stesso Hendrix aveva dichiarato più volte che nella sua nuova vita avrebbe voluto imparare a leggere la musica per lavorare su partiture più complesse. L’idea che aveva del jazz discendeva ancora dal suono delle big band degli anni ’40, ascoltate con suo padre: che tra le sordine di Ellington e il wah wah sulla Fender si possa tracciare un filo rosso è ipotesi non troppo peregrina.
Senonchè Davis ci mise, ancora una volta, qualcosa del suo. Il giorno prima della prima session Douglas riceve una telefonata del manager del trombettista: «Mi dispiace dirtelo, Alan, ma Miles vuole 50.000 dollari prima di andare in studio». Douglas allora chiama Davis: «Miles che succede?», gli chiede. «Dai, so che ce la puoi fare», ammicca il trombettista. «No che non posso», insiste Douglas. Hendrix, che è lì presente, capisce l’antifona, e bofonchia qualcosa tipo «Vabbè andiamocene a mangiare». Allora chiama il giovane batterista di Davis, Tony Williams. E’ infuriato: «Ho saputo che dai 50.000 dollari a Miles!».
TonyWillams, 24 anni, aveva partecipato nell’aprile 1969 alle session di In a silent way, l’annuncio della svolta elettrica di Miles Davis coi pianisti Joe Zawinui e Chick Corea, che avevano circondato come gli indiani il povero Herbie Hanckock, e con un giovane chitarrista inglese, John Mc Laughlin. Ancora Mc Laughlin compare qualche mese dopo nelle session di Bitches Brew, il doppio e definitivo album del Davis elettrico, uscito giusto quarant’anni fa.
Bitches Brew è già l’alfa e l’omega di tutto: l’esplorazione di un nuovo pianeta, il vero disco «hendrixiano» di Miles Davis; ma anche la. nascita della fùsion e del jazzrock, l’idioma multinazionale e spesso pletorico del decennio che viene. Ha raccontato una volta Robert Wyatt di aver assistito in quel periodo a una jam session a New York, accanto a Jimi Hendrix. Sale dui palco il chitarrista «fùsion» Larry Corryel e macina dieci minuti di scale velocissime. Sale Hendrix, subito dopo, e attacca: «Bam-wahwah-waah!». «Con quattro note - ricordava ridendo Wyatt - Jimi lo ha cancellato!».
Ma Hendrix sentiva il bisogno di un maestro, e quello avrebbe potuto essere Miles Davis. Davis, a sua volta, aveva bisogno di uscire dalla claustrofobla del jazz. Aveva voglia di stupire tutti di nuovo, abbandonando al proprio destino il jazz modale, il free jazz, Coltrane e Coleman. La sera che Douglas lo portò a vedere Hendrix, in un club di New York, rimase a bocca aperta. Disse soltanto: «Che sta facendo? Che cazzo sta facendo?». L’impressione, riascoltando le incisioni dei due musicisti in quel periodo, è che qualcosa li stesse spingendo@@verso lo stesso pianeta. Third stane from thè sun, come quel pezzo di Hendrix-.O un Pianeta Nero (come un titolo dei Public Enemy) rarefatto, funky, sexy, infestato da misteriose elettriche presenze. Davis attaccò un wah wah alla tromba.. Hendrix fece suonare la sua chitarra come la tromba di Davis.
E Davis uscì dal jazz, per entrare in un mondo che rimase soltanto suo. Hendrix uscì dal mondo e basta così. Del progetto discografico con Gii Evans resta la copertina disegnata dell’artista pop-surrealista Mati Klarvein, che immaginò per primo il Black Planet dov’era riuscito a sbarcare Davis - sua è pure la copertina di Bitches Brew. E mentre Gii Evans arrangiò e incise alcuni pezzi celebri di Hendrix, a Davis scappò l’ultima cattiveria. Accettò nuovamente di partecipare alle session messe in piedi da Alan Douglas. Che sarebbero dovute iniziare pochi giorni dopo che Hendrix fu trovato cadavere a Londra.. Così non gli restò che andare al suo funerale. Col cuore spezzato, dissero.