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 2010  settembre 29 Mercoledì calendario

ESPORTARE LA GUERRA OBAMIANA IN PAKISTAN, SENZA PIÙ PUDORI

Washington. Nel fine settimana l’Amministrazione Obama ha inaugurato senza formalità l’era post-droni in Pakistan. Dopo avere colpito i terroristi per 127 volte dall’inizio del 2009 con i bombardamenti clandestini della Cia sulle aree tribali dell’alleato pachistano, i vertici politici e militari di Washington hanno varcato i confini della segretezza per andare a stanare i capi talebani con elicotteri e forze regolari al di là dell’Afghanistan in guerra.
Due Apache delle forze Isaf hanno inseguito e ucciso nel cuore del Waziristan del nord 53 operativi dell’Haqqani network, uno dei gruppi più bersagliati nel “surge” di bombardamenti autorizzato dal presidente Obama. A settembre i droni americani hanno colpito venti obiettivi in Pakistan e la grande offensiva dei Predator – ufficialmente non destinati ai bombardamenti – ha ucciso il capo di al Qaida in Pakistan, Sheikh al Fatah al Masri, l’egiziano, a ridosso del confine con l’Afghanistan. Nel libro-inchiesta appena uscito di Bob Woodward, “Obama’s Wars”, è svelato per la prima volta che la Cia ha addestrato un esercito di tremila afghani scelti per andare a stanare il nemico in territorio pachistano senza provocare incidenti diplomatici con quello che, per quanto infido e strozzato da guerre di potere fra bande, è pur sempre un alleato degli Stati Uniti e delle forze della coalizione. Da tempo invece si sapeva che in Pakistan si muovono contractor assoldati dal governo americano per condurre le operazioni che in gergo si chiamano “snatch and grab”: si individua l’obiettivo, si organizza il raid e si tenta la cattura. Se il rischio è troppo alto si opta per l’eliminazione e i contractor scompaiono nel nulla. Il loro ruolo è anche fondamentale nel dare informazioni alla Cia sulla localizzazione dei covi talebani, e la lunga catena della raccolta dei dati spiega perché i bombardamenti “segreti” abbiano una percentuale di successo estremamente alta. Le truppe americane sono anche impegnate nell’addestramento dei soldati di Islamabad, gli unici ufficialmente autorizzati a fronteggiare con le armi i gruppi talebani che si nascondono nelle roccaforti del Waziristan. Nonostante tutto questo, a Washington è vietato usare la parola “guerra” in riferimento al Pakistan.
La prima operazione esplicita delle forze Isaf ha scatenato la partita delle prese di posizioni pubbliche. I vertici delle forze della coalizione insistono che l’attacco oltre i confini del Pakistan è giustificato da un accordo che prevede la possibilità di uscire dai confini afghani per difendersi da un attacco in corso. “Le forze Isaf hanno il diritto alla legittima difesa, e per questo hanno attraversato il confine”, ha spiegato il capitano americano Ryan Donald; gli ufficiali di Islamabad non sono d’accordo con l’interpretazione delle regole d’ingaggio adottata dai soldati occidentali e il capo delle forze armate di Islamabad, il potentissimo generale Parvez Kayani, ha detto che “nessuna forza straniera è autorizzata a condurre operazioni sul territorio del Pakistan”. Ancora più duro il portavoce del Foreign Office, Abdul Basit, che ha parlato di una “chiara violazione del mandato Onu che regola la presenza Isaf” e ha negato l’esistenza di un qualsiasi accordo con le forze della coalizione: “Non ci sono regole sugli ‘obiettivi sensibili’ e ogni impressione in senso contrario è falsa. Queste violazioni sono inaccettabili e se non ci saranno immediate misure correttive il Pakistan sarà costretto a considerare una risposta”.
Washington però ha almeno due ottime ragioni per accettare il rischio diplomatico e andare avanti con la grande offensiva autunnale fra i covi del Waziristan del nord. La prima risponde a un’esigenza contingente: il Wall Street Journal spiega che la Cia ha ordinato l’ondata massicia di bombardamenti per eliminare una cellula che stava studiando attentati multipli sul suolo europeo. Alcuni ufficiali americani hanno confermato che l’intelligence sta seguendo da settimane le evoluzioni di un complotto che avrebbe avuto obiettivi in Germania, Gran Bretagna e Francia, e i vertici militari non potevano aspettare oltre per prendere iniziativa ed eliminare gli attentatori. E’ uno dei rarissimi casi in cui la Cia scarica missili per spegnere sul nascere un attacco all’occidente: solitamente i droni colpiscono obiettivi secondo lo schema delle informazioni raccolte sul campo. C’è una lunga lista di terroristi che si nascondono in Pakistan e appena si intravede lo spazio per un raid, i Predator partono e colpiscono.

Sotto i droni, sopra l’offensiva su Kandahar
Non si conoscono i dettagli di questo complotto contro l’Europa, ma questa settimana il segretario per la Sicurezza nazionale, Janet Napolitano, ne discuterà con le controparti europee al meeting per la sicurezza aerea dell’Onu a Montreal. Particolarmente sensibile è la posizione della Germania, uno degli obiettivi del complotto sventato dagli americani: i soldati tedeschi della coalizione non si sono distinti nel loro settore, e hanno regole d’ingaggio studiate apposta per evitare ogni scontro a fuoco. L’esperto di controterrorismo Andrew Exum dice che i soldati tedeschi “vedono l’Afghanistan soltanto dal periscopio” dei mezzi blindati. Più di una volta i soldati americani sono andati a risolvere situazioni altrimenti troppo intricate e se il progetto di attentato verrà confermato c’è da supporre che un semplice “grazie” di Berlino a Washington non sia un compenso adeguato ai rischi che gli americani si stanno prendendo sul campo.
La seconda ragione del surge di droni e uomini voluto da Obama è politica. Due giorni fa il generale David Petraeus ha confermato quello che tutti sanno da mesi: i talebani stanno trattando con il presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai, un piano di riconciliazione “a tutti i livelli”. Le discussioni sono mediate dal Pakistan e sorvegliate da vicino dall’America, che mentre sponsorizza la “reconciliation” sta tentando una complicata opera di distinzione fra nemico e nemico. Nell’attuale assetto politico, i talebani che accettano il dialogo con le autorità in una prospettiva di una normalizzazione sono un asset da custodire gelosamente e mentre con una mano Washington lavora di diplomazia, con l’altra martella senza tregua le frange che né l’occidente né il Pakistan possono sperare di far sedere attorno a un tavolo.
A Kandahar i soldati americani hanno lanciato un’offensiva e in Pakistan entrano con frequenza mai vista, là dove si nascondono i comandanti arabi di al Qaida, il nemico-nemico, sempre più lontano – nella narrativa scritta da Washington – dal nemico afghano, avversario normalizzabile e in qualche modo riconducibile a uno schema condiviso fra Washington, Kabul e Islamabad.