Il Riformista 22/10/2010, 22 ottobre 2010
BOOTLEG SÌ/NO
«Uno zotico, con le donne e con gli uomini. Quando arrivò a New York cominciò a frequentare i piccoli circuiti del folk, al Greenwich Village, senza nemmeno presentarsi. Voleva solo far sentire le sue canzoni. Inizialmente in un locale di Manhattan fu preso a schiaffi perché aveva suonato senza permesso su un trespolo tolto dal bancone del bar».
Ricordi di Joan Baez, la “regina del folk”, una delle non poche donne scottate dal magnetismo di Bob Dylan, le avrebbe rubato un po’ di fama e poi l’avrebbe messa da parte per la donna della sua vita, Sara Lownds. Così va il rock, quello strano fenomeno che ha investito i giovani negli ultimi cinquant’anni abbondanti, di generazione in generazione, cambiando continuamente caratteristiche. Un’inafferrabile centrifuga, capace di mescolare ogni cosa: blues, pop, soul, folk, country. Dylan, con la sua incredibile determinazione, di cui la Baez e altri fecero le spese, è stato un esempio di come, proprio nel nome del rock, si potessero abbattere tutti gli steccati. Nei Cinquanta era successo con la musica da ballo, che il rock’n’roll aveva rivoltato come un calzino. Nel decennio successivo accadde anche a generi più nobili: per esempio, la canzone sociale o di protesta, che questo ragazzino appena ventenne traghettò verso forme più movimentate e profane. “The Bootleg Series Vol. 9 - The Witmark Demos” (Columbia), in questi giorni nei negozi di dischi, racconta bene i lavori in corso di un giovane ambizioso e scaltro: immortala, insomma, un Dylan ancora in cerca di fama e successo.
John Hammond, il suo scopritore – e lo scopritore, guardacaso, di Billie Holiday, Bessie Smith, Count Basie – lo spinge a registrare i demo dei suoi pezzi presso un paio di editori musicali: è il 1962, lui ha inciso da poco un esordio, omonimo, che è passato quasi inosservato. All’epoca, depositare le canzoni è un’attività importantissima, significa testimoniarne la proprietà e gli editori musicali, in questo caso Leeds e Witmark, hanno un commercio floridissimo. Davanti a un microfono, con voce, chitarra, armonica e poco altro, l’artista snocciola in un paio di sedute versioni rozze ma incredibilmente pungenti di cavalli di battaglia quali “Don’t Think Twice”, “It’s Allright”, “Blowin’ In The Wind”, “Mr. Tambourine Man”, “The Times They Are A-Changin’”: alcuni sono già affiorati in altri volumi della serie, altri sono inediti assoluti, almeno per il grande pubblico. Quasi tutti risultano emozionanti, pur nelle imperfezioni, negli schiarimenti di voce e nei passi falsi. La voce di Bob è così affilata da fare male: oggi è entrata nell’immaginario collettivo, nei primi Sessanta è la voce dei neri d’America, dei diseredati. Come il suo maestro, Woody Guthrie, canta di ingiustizie sociali e di poveracci, di viaggi lungo le vie laterali degli States e dei giochi di potere e di guerra dei politici. Lo fa però scostandosi dalla strada segnata, con una inconsapevolezza che è parte del suo genio. Da lì a pochi mesi (le incisioni terminano nel 1964, prima di Another Side Of Bob Dylan) tutto sarebbe cambiato. Riascoltare questi provini è come assistere, in diretta, alla demolizione di un antico e glorioso edificio. Emozionante e quasi terribile.
SI’, PER FAVORE
Bob Dylan - The Original Mono Recordings (Sony)
Come suonavano, davvero, i primi LP di Bob Dylan negli anni Sessanta? A tutti i curiosi, ma non solo, è dedicata questa ristampa minuziosa dei primi nove album del più grande poeta del rock: ripresi dai nastri originali, i titoli vanno da “Bob Dylan” (1962) a “John Wesley Harding” (1969), passando per capolavori consolidati come “Highway 61 Revisited” (1966) e “Blonde On Blonde” (1966). Per la prima volta tutti vengono presentati nella loro versione monofonica. Nei Sessanta, almeno fino al ’68, la stereofonia era un privilegio di pochi. Nessun appassionato di rock la teneva in considerazione, sembrava un vezzo da audiofili e da ascoltatori di classica. Così, le versioni più accurate di questi dischi sono quelle che ascoltiamo per la prima volta oggi dopo tanto tempo, con gli strumenti che si accumulano uno sull’altro, in un muro di suono tanto familiare a chi ha almeno una sessantina d’anni. È una bella scoperta: molti pezzi hanno dettagli totalmente diversi dai fratellastri stereofonici, e la brillantezza dei timbri vince la sfida. Aggiungete un prezzo economico del cofanetto, la riproduzione cartonata delle edizioni originali, una sfilza di canzoni immortali e avrete una delle ristampe, se non la ristampa, dell’anno.
NO, GRAZIE
The Beatles / 1962-1966 (EMI) - The Beatles / 1967-1970 (EMI)
Con questi due doppi cd si dovrebbe completare il progetto di ristampe del catalogo beatlesiano. Un’avventura cominciata il 9 settembre dell’anno scorso, con l’integrale della loro discografia originale, applaudita da molti (mai i dettagli erano stati così brillanti) ed esecrata da tanti (meglio gli LP che furono). La ristampa di quelle che negli anni Settanta sono state definite come l’antologia rossa e la blu sono uno sfizio, puro e semplice: nessuna contiene inediti, entrambe vorrebbero essere una specie di memoria storica di “come si ascoltavano i Beatles nei 70”. Male, dal momento che i dischi erano ancora tutti reperibili e che, allora come oggi, operazioni del genere sembrano il solito modo per mungere una vacca sempre più povera, il popolo degli appassionati, che sicuramente non sapranno resistere alla veste grafica, appena ritoccata e a un libretto nuovo di zecca, ma inutile. Spiace per loro.