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 2010  ottobre 22 Venerdì calendario

CON “PENTHOUSE” BOB CALIGOLA VINSE LE GUERRE PUBICHE

Il fondatore di Penthouse, Robert Charles Joseph Edward Sabatini Guccione detto Bob, è morto a 79 anni di cancro, a Plano in Texas, dopo una lunga malattia, assistito dalla moglie April Dawn Warren e da due dei suoi figli. L’immagine del nucleo familiare stretto intorno al patriarca è paradossale per uno che ha passato la vita a combattere le «guerre pubiche». Così venne chiamata l’accesa rivalità tra Penthouse e Playboy, allora incontrastata rivista “solo per adulti”. Una concorrenza per accaparrarsi i lettori combattuta a colpi di peli pubici, da far comparire negli attesi servizi fotografici del paginone centrale, sempre però senza abusare, perché la visibilità dei peli insieme ai genitali rappresentavano il limite tra il soft core e la pornografia tout court. Per cui anche nelle copertine dei magazine gli editori erano costretti spesso a mettere le braghe a conigliette e cover girl.
Faccia da impresario, sguardo alla Tom Jones, camicie di seta aperte sul petto e vistose catene d’oro alla Soprano, l’italoamericano Guccione era nato nel 1930 a Brooklyn da emigrati siciliani. Una vita sentimentale tumultuosa, con quattro mogli e cinque figli. La storia d’amore più lunga è però quella con la creatura, Penthouse. In breve tempo dal suo esordio sul mercato, Guccione divenne uno dei re del porno americano, insieme a Larry Flint di Hustler e a Hugh Hefner di Playboy. Penthouse nasce in Inghilterra, poi nel 1969, in piena controcultura, lo sbarco in Usa come «rivista di sesso, politica e protesta». La prima edizione, con la bruna Evelyn Treacher in copertina del settembre 1979 costa 75 centesimi e vende 235mila copie. Ad agosto del 1971 Penthouse raggiunge un milione 280mila lettori. Nel 1972 i milioni sono due. La rivista di Guccione è aggressiva, esplicita, tanto da costringere Playboy ad alzare il tiro, anzi il pelo delle guerre pubiche: Liv Lindeland e Marilyn Cole nel 1971 e nel 1972 osano nel paginone centrale con timidi tentativi quello che Guccione aveva già svelato. Nel 1976 Playboy si aggira sui 5/6 milioni. Penthouse raggiunge i 4,5 milioni di copie. Un successo. La guerra con Playboy vede protagonista anche Madonna: le due riviste si spartiscono due servizi con nudi integrali. Il colpo di Guccione è invece Vanessa Williams, la prima donna di colore eletta Miss America e la prima a finire su una copertina di una rivista per adulti.
Quella delle guerre pubiche è l’età d’oro delle riviste only for men, dove si sprecano le pubblicità di marche di sigarette, status symbol della virilità anni 70, inviti alla nicotina che oggi gridano vendetta. Ma soprattutto Penthouse è il trionfo del patinato. Al posto dell’immagine liscia e fin troppo nitida del digitale di oggi, c’era una visione più calda e vellutata. Il velo nasconde un immaginario erotico adulto per adulti. «Abbiamo scelto la filosofia del voyeurismo», ha rivelato Guccione all’Independent nel 2004, spiegando la sua visione mediterranea, lussureggiante, lasciva. «Abbiamo fatto vedere alla donna come non sapeva di essere guardata. Non abbiamo stilizzato nulla, né ci siamo allontanati dallo sguardo. Questa è la vera cosa sexy che gli altri non hanno mai capito».
Più che conigliette, le ragazze di Penthouse hanno corpi maturi, molto femminili, senza alcuna ambiguità, sessuale o di anagrafe. Il Wall Street Journal riassume così il carattere di Penthouse: «Su Playboy scrivevano penne migliori, molte star si facevano fotografare nelle classiche pose. Anche su Penthouse c’erano importanti scrittori, ma la rivista rimaneva concentrata sul sesso e certamente nessuno degli abbonati avrebbe mai confessato che a convincerli a rinnovare la lettura erano gli articoli di Stephen King, Philip Roth, Joyce Carol Oates o le interviste a Gore Vidal». Lo sguardo di Guccione era differente da quello di Hefner, figlio di puritani medotisti che ha costruito un impero sulle proprie ossessioni di ragazzo, nascondendo però spesso il sesso dietro la cultura dei suoi illustri collaboratori. Guccione preferisce le inchieste sulla violenza femminile, sulla guerra in Vietnam e sugli scandali della politica e l’economia americana.
Anche grazie a questo sesso torbido ma più genuino rispetto al sofisticato Playboy, Guccione riesce a superare sul finire degli anni Settanta la crisi dell’hardcore, incalzato dalle prime videocassette e dalla produzione amatoriale. Negli anni 80 per Forbes divenne uno degli uomini più ricchi d’America con un patrimonio stimato in 400 milioni di dollari e una collezione di quadri del valore di 150 milioni di dollari che comprendeva opere di Degas, Renoir, Picasso, Matisse e Chagall. Lo stesso Guccione si considerava un artista, un pittore. Grazie agli introiti delle sue 16 edizioni, la sua casa editrice, General Media, lanciò altri 15 magazine, come Omni, periodico scientifico.
Non a caso, il lussurioso Guccione spese molti soldi per l’ambizioso e scandaloso Io, Caligola di Tinto Brass (1977), film con un cast stellare (Malcolm McDowell, Peter O’Toole, John Gielgud, Helen Mirren), e la sceneggiatura colta di Gore Vidal e Masolino d’Amico. Ci furono liti, tagli, rimaneggiamenti e censure. Guccione stravolse l’opera originale girando molte scene personalmente, tanto che Brass e Vidal sconfessarono il prodotto finale. Brass ancora oggi prende le distanze dalla pornografia di Guccione: «Non mi piace e faccio fatica a rispettarla, non c’era poesia in quello che faceva».
L’impero dell’erotismo di Penthouse si sgretola pian piano, una decisiva spallata viene dall’investimento di 160 milioni di dollari per il casinò di Atlantic City, mai realizzato. Guccione nulla può contro l’esplosione dell’home video e l’arrivo della pornografia online. Internet ammazza la carta e rende inutili gli imbarazzanti viaggi fino all’edicola. Nel 2004 per Guccione arriva la bancarotta e il passaggio alla FriendFinder Networks. La notizia di questa estate dell’offerta di Penthouse per rilevare Playboy non poteva accendere più gli sguardi di un tempo.


bootleg sì/no
Caro Dylan
i tempi
cambiano
di John Vignola

«Uno zotico, con le donne e con gli uomini. Quando arrivò a New York cominciò a frequentare i piccoli circuiti del folk, al Greenwich Village, senza nemmeno presentarsi. Voleva solo far sentire le sue canzoni. Inizialmente in un locale di Manhattan fu preso a schiaffi perché aveva suonato senza permesso su un trespolo tolto dal bancone del bar».
Ricordi di Joan Baez, la “regina del folk”, una delle non poche donne scottate dal magnetismo di Bob Dylan, le avrebbe rubato un po’ di fama e poi l’avrebbe messa da parte per la donna della sua vita, Sara Lownds. Così va il rock, quello strano fenomeno che ha investito i giovani negli ultimi cinquant’anni abbondanti, di generazione in generazione, cambiando continuamente caratteristiche. Un’inafferrabile centrifuga, capace di mescolare ogni cosa: blues, pop, soul, folk, country. Dylan, con la sua incredibile determinazione, di cui la Baez e altri fecero le spese, è stato un esempio di come, proprio nel nome del rock, si potessero abbattere tutti gli steccati. Nei Cinquanta era successo con la musica da ballo, che il rock’n’roll aveva rivoltato come un calzino. Nel decennio successivo accadde anche a generi più nobili: per esempio, la canzone sociale o di protesta, che questo ragazzino appena ventenne traghettò verso forme più movimentate e profane. “The Bootleg Series Vol. 9 - The Witmark Demos” (Columbia), in questi giorni nei negozi di dischi, racconta bene i lavori in corso di un giovane ambizioso e scaltro: immortala, insomma, un Dylan ancora in cerca di fama e successo.
John Hammond, il suo scopritore – e lo scopritore, guardacaso, di Billie Holiday, Bessie Smith, Count Basie – lo spinge a registrare i demo dei suoi pezzi presso un paio di editori musicali: è il 1962, lui ha inciso da poco un esordio, omonimo, che è passato quasi inosservato. All’epoca, depositare le canzoni è un’attività importantissima, significa testimoniarne la proprietà e gli editori musicali, in questo caso Leeds e Witmark, hanno un commercio floridissimo. Davanti a un microfono, con voce, chitarra, armonica e poco altro, l’artista snocciola in un paio di sedute versioni rozze ma incredibilmente pungenti di cavalli di battaglia quali “Don’t Think Twice”, “It’s Allright”, “Blowin’ In The Wind”, “Mr. Tambourine Man”, “The Times They Are A-Changin’”: alcuni sono già affiorati in altri volumi della serie, altri sono inediti assoluti, almeno per il grande pubblico. Quasi tutti risultano emozionanti, pur nelle imperfezioni, negli schiarimenti di voce e nei passi falsi. La voce di Bob è così affilata da fare male: oggi è entrata nell’immaginario collettivo, nei primi Sessanta è la voce dei neri d’America, dei diseredati. Come il suo maestro, Woody Guthrie, canta di ingiustizie sociali e di poveracci, di viaggi lungo le vie laterali degli States e dei giochi di potere e di guerra dei politici. Lo fa però scostandosi dalla strada segnata, con una inconsapevolezza che è parte del suo genio. Da lì a pochi mesi (le incisioni terminano nel 1964, prima di Another Side Of Bob Dylan) tutto sarebbe cambiato. Riascoltare questi provini è come assistere, in diretta, alla demolizione di un antico e glorioso edificio. Emozionante e quasi terribile.
SI’, PER FAVORE
Bob Dylan - The Original Mono Recordings (Sony)
Come suonavano, davvero, i primi LP di Bob Dylan negli anni Sessanta? A tutti i curiosi, ma non solo, è dedicata questa ristampa minuziosa dei primi nove album del più grande poeta del rock: ripresi dai nastri originali, i titoli vanno da “Bob Dylan” (1962) a “John Wesley Harding” (1969), passando per capolavori consolidati come “Highway 61 Revisited” (1966) e “Blonde On Blonde” (1966). Per la prima volta tutti vengono presentati nella loro versione monofonica. Nei Sessanta, almeno fino al ’68, la stereofonia era un privilegio di pochi. Nessun appassionato di rock la teneva in considerazione, sembrava un vezzo da audiofili e da ascoltatori di classica. Così, le versioni più accurate di questi dischi sono quelle che ascoltiamo per la prima volta oggi dopo tanto tempo, con gli strumenti che si accumulano uno sull’altro, in un muro di suono tanto familiare a chi ha almeno una sessantina d’anni. È una bella scoperta: molti pezzi hanno dettagli totalmente diversi dai fratellastri stereofonici, e la brillantezza dei timbri vince la sfida. Aggiungete un prezzo economico del cofanetto, la riproduzione cartonata delle edizioni originali, una sfilza di canzoni immortali e avrete una delle ristampe, se non la ristampa, dell’anno.
NO, GRAZIE
The Beatles / 1962-1966 (EMI) - The Beatles / 1967-1970 (EMI)
Con questi due doppi cd si dovrebbe completare il progetto di ristampe del catalogo beatlesiano. Un’avventura cominciata il 9 settembre dell’anno scorso, con l’integrale della loro discografia originale, applaudita da molti (mai i dettagli erano stati così brillanti) ed esecrata da tanti (meglio gli LP che furono). La ristampa di quelle che negli anni Settanta sono state definite come l’antologia rossa e la blu sono uno sfizio, puro e semplice: nessuna contiene inediti, entrambe vorrebbero essere una specie di memoria storica di “come si ascoltavano i Beatles nei 70”. Male, dal momento che i dischi erano ancora tutti reperibili e che, allora come oggi, operazioni del genere sembrano il solito modo per mungere una vacca sempre più povera, il popolo degli appassionati, che sicuramente non sapranno resistere alla veste grafica, appena ritoccata e a un libretto nuovo di zecca, ma inutile. Spiace per loro.