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 2010  ottobre 22 Venerdì calendario

UN BOLLINO E DUE DAZI PER CHIQUITA


C’è una storia ultradecennale, giuridicamente complicata, che riguarda le banane – il che le conferisce una nota di colore – ma che ripropone, però, in modo drammatico, il tema dell’incertezza del diritto in Italia.

È la truffa delle banane Chiquita, una vicenda fiscale e giudiziaria che va avanti da dodici anni e che ha avuto negli ultimi giorni una (provvisoria) conclusione surreale.

Un piccolo spedizioniere trentino, che si dice vittima inconsapevole di un traffico di falsi diritti d’importazione, è stato condannato a pagare i diritti evasi «in solido» con l’importatore, come se «non potesse non sapere» dell’esistenza del raggiro. Ed a pagare subito la sua parte di sanzione (senza averne peraltro i soldi), anche se il procedimento giudiziario sull’asserita truffa è ancora in corso e se, proprio per questo, la Chiquita ha ottenuto la sospensiva sulla sua, ben prevalente, quota di pagamento.

Ma per capirci qualcosa, è meglio andare per gradi. Dal 1998 al 2000 sarebbero state importate in Italia oltre 50 mila tonnellate di banane al di fuori del contingente preferenziale comunitario, con una evasione dei dazi di oltre 20 milioni di euro. Sulle importazioni, presentate come «regolari» (cioè provenienti dai paesi preferenziati dell’Asia e dell’Africa e non da Centro e Sud America), e pertanto effettuate esibendo i cosiddetti certificati «Agrim», che riconoscono la provenienza corretta delle merci contingentate, sarebbe stato applicato illecitamente il dazio di 75 euro a tonnellata (ridotto per i paesi privilegiati) invece della tariffa doganale di 708-765 euro a tonnellata applicata per gli altri paesi. Solo che la provenienza effettiva delle merci era diversa da quella dichiarata. E in alcuni casi i certificati stessi erano falsificati di sana pianta.

La maxi-truffa ebbe due focolai: uno a Genova e uno a Rovereto. Tutto nasceva dalla pretesa di Chiquita di importare dai paesi non privilegiati più merce di quella ad essa assegnata dai certificati, comprando questi ultimi dagli altri importatori che ne erano titolari: in fondo, nient’altro che una furbata per godere senza averne diritto dei vantaggi daziari riservati a soggetti diversi.

Insomma: se quei certificati fossero stati pagati dai titolari, il fisco avrebbe incassato i dazi ridotti. Invece Chiquita, dopo aver comprato tutta la merce ad essa riservata, per non andare fuori quota e pagare dazio pieno rilevava i certificati altrui.

Per tutta questa girandola di contratti “grigi”, più o meno gravi, le pratiche relative ai certificati autentici, ma comprati, si sono chiuse presto e bene, col pagamento dei maggiori diritti da parte di Chiquita.

Per i certificati falsi, invece, è ancora in corso un procedimento in cui la Chiquita nega la falsificazione e sostiene di aver agito correttamente. Il fisco non ci crede, e le chiede circa 3 milioni di euro di dazi evasi. La multinazionale, però, domanda e ottiene la sospensiva del pagamento, in attesa della sentenza di merito.

Cosa capita, invece, allo spedizioniere che aveva sdoganato su incarico della Chiquita le banane contestate? Si tratta di un’azienda trentina, medio-piccola, la Errac, che si è vista contestare 770 mila euro di sanzione – una cifra da tramortirla – e che, dopo aver impugnato il provvedimento e aver vinto due gradi del giudizio tributario, si è vista condannare in Cassazione: «Non poteva non sapere».

A nulla valgono le difese della Errac, che sostiene come le sarebbe stato materialmente impossibile accorgersi che i documenti ricevuti per lo sdoganamento erano falsi, non trattandosi di banconote o valori mobiliari filigranati e ologrammati; né la circostanza che la stessa amministrazione aveva impiegato ben tre anni per accorgersi dell’illecito: come avrebbe potuto mai lo spedizioniere accorgersene subito? Niente, per la Cassazione la Errac è colpevole e deve pagare.

E qui scatta il secondo, e più grave, paradosso. La Chiquita - che a sua volta è in causa con lo Stato per la stessa vicenda, e sostiene la veridicità dei certificati contestati - ha ottenuto la sospensiva dei 3 milioni di multa a suo carico, in attesa del giudizio definitivo. E invece l’Errac, pura intermediaria e non correa dell’eventuale truffa, chiede a sua volta la sospensiva alla Direzione delle Dogane, invocando il diritto di attendere l’esito del procedimento “madre”, ma si vede rispondere picche: paghino subito. Non ha i soldi per farlo, e rischia il crac. Due dazi e due misure.