Ernesto Ferrero, La Stampa 22/10/2010, pagina 44, 22 ottobre 2010
Rodari, non sono solo canzonette - “Per colpa d’un accento / un tale di Santhià / credeva d’essere alla meta / ed era solo a metà»
Rodari, non sono solo canzonette - “Per colpa d’un accento / un tale di Santhià / credeva d’essere alla meta / ed era solo a metà». A 30 anni dalla scomparsa, 90 dalla nascita (domani 23 ottobre) e 40 dalla consacrazione europea del premio internazionale Andersen, si può vedere benissimo che quella che Gianni Rodari ha introdotto sin dagli Anni 50 è stata una vera rivoluzione. Per dirla con l’apologo cinese: al bambino non bisogna regalare dei pesci (libri zuccherosi, stucchevolmente buonisti, ispirati da un’idea fasulla dell’infanzia), bisogna insegnargli a prendere i pesci, cioè dargli un meccano: una «grammatica della fantasia», un metodo sperimentato con il quale impareranno a inventare storie per conto loro. Bastano materiali poveri come le parole e strumenti alla portata di tutti: la filastrocca, la rima, l’associazione d’immagini, l’assurdo, il surreale, «i nonsensi e i plurisensi», perfino l’errore, il cortocircuito rivelatore. Il gioco come modalità principe di apprendimento e di sperimentazione, di autoformazione, di crescita: tutto semplice, adesso, ma allora? Come tutti gli innovatori e i pionieri, Rodari non ha avuto vita facile. I tempi andavano da tutt’altra parte. Figlio di un fornaio del Varesotto con bottega a Omegna, studi in seminario, breve ma intensa esperienza organizzativa in Azione Cattolica, maestro nel 1941, arriva alla redazione milanese dell’Unità nel 1947, diventa presto inviato, scrive racconti per bambini. Nel 1950 gli affidano la direzione del Pioniere, il settimanale per ragazzi che se la deve vedere con due corazzate: Topolino e il cattolicissimo Vittorioso. L’aria è pesante, il muro contro muro politico e ideologico rende tutto difficile, impone rigidezze manichee. Nel 1951 su Rinascita Nilde Iotti aveva collegato la corruzione e la delinquenza giovanile nientemeno che al dilagare del fumetto. E quando lui aveva auspicato con la dovuta cautela «la nascita di una nuova letteratura per l’infanzia, capace anche con i suoi mezzi organizzativi di condurre una lotta efficace», s’era beccato un cartellino giallo dal medesimo Togliatti, il quale dichiarava di non condividere la posizione del Rodari: «Non metteremo in fumetti la storia del nostro partito o della rivoluzione». E aggiungeva che piuttosto bisognava elaborare narrazioni ispirate alle stampe cinesi. Altro che «correre dietro alle forme più corruttrici dell’americanismo». Anni dopo Rodari dirà che al Pioniere lo avevano «crudelmente snobbato e praticamente cacciato», lui e le sue «canzonette», trovandolo «poco divertente, poco progressivo, poco tutto». E concludeva: «Nemo propheta in patria alicata». Ma tira diritto e continua a lavorare sodo. In un Paese serioso ma non serio, con scarsa attitudine all’umorismo, insegna nientemeno che a imparare divertendosi. Comincia a andar meglio quando alla fine degli Anni 50 approda alla corte di Einaudi, ma persino lo Struzzo, preso com’è dai furori dell’impegno, considera i libri per ragazzi una cosa simpatica, divertente, ma decisamente minore, quasi marginale. Anche se le Filastrocche in cielo e in terra sono un successo immediato, nelle lettere a Via Biancamano il nuovo autore deve vincere l’imbarazzo di chi deve chiedere ogni volta se la tal proposta può interessare. Ma lo fa con una vis comica che trova perfino in pratiche amministrative e solleciti di pagamento le occasioni per scatenare pirotecnie verbali, clownerie, intermezzi e siparietti, veri e propri racconti («Nello scavare le fondamenta per la mia casina in campagna i muratori hanno incontrato e sfasciato un muro: ho i Lucomoni in cantina! Porsenna mi regge la tazza del cesso!»). Mette in caricatura la propria deferenza di suddito devoto, e chiama bertoldescamente l’editore «Sire, Maestà, Capo, don, monsignore, Eminenza, cardinale, comandante, padrone, hidalgo editorial», sparando messaggi esilaranti, come una lettera del 1961 in puro stile Totò: «Eccellenza, io trasecolo - anzi, se me lo permette, esorbito. Ella mi chiede, in caratteri dattilografici di stupefacente nitidezza e perfetta marginatura, notizie dei miei raccontini: i quali, viceversa, giacciono tuttora inevasi presso codesta Santa Sede, affidati alle cure di un Capitale sociale di L. 400.000.000 e di più telefoni, nonché alla lettura di Italo Giulio Bollati Calvino - persone di Sua e Mia totale fiducia, amici di diversa lunghezza, perfetto pendant di acuta bontà e acuta cattiveria, vanto di Torino tutto e della Liguria in parte, che il mar circonda e l’Alpe». Ci sono centinaia di scuole intitolate a Rodari, a Orvieto un Centro studi cerca di mantenerne viva la lezione, dalla Sardegna al Friuli si organizzano eventi celebrativi. Il «metodo Rodari», cioè la capacità di smontare e rimontare meccanismi non solo verbali per capire come sono fatti, è più necessario che mai, in tempi di omologazione, pressappochismo, appiattimento sulle immagini. Certo, comporta un po’ di impegno, perfino di fatica, parola oggi impronunciabile. Chissà che a Rodari riesca anche il miracolo postumo di convincere genitori, insegnanti e ragazzi che il gioco vale la candela.