Marina Forti, il manifesto 21/10/2010, 21 ottobre 2010
BRACCIO DI FERRO PER LA LIBERTÀ
Era cominciato, il mese scorso, con un episodio di «ordinaria censura» nei confronti di un cineasta. Poco a poco è diventato un braccio di ferro tra il ministero della cultura e la Casa del cinema di Tehran - il sindacato di categoria con quasi 4000 tesserati, incrocio tra associazione professionale e cassa mutua. Ed è finita con una sorta di insurrezione (in termini figurati, si intende) dell’intera categoria professionale contro le interferenze del governo: infatti ben 160 tra registi, attori e altri professionisti del cinema - tutti nomi piuttosto noti in Iran - hanno firmato in questi giorni una lettera in difesa dell’autonomia della Casa del cinema.
Lo scontro tra il cinema e il governo iraniano è rivelatore di una vita culturale che rifiuta la normalizzazione. L’episodio che ha innescato tutto è già noto ai lettori del manifesto: si tratta del regista Asghar Farhadi, l’autore di About Elly. Durante la cerimonia di chiusura delle Giornate del cinema a Tehran, il 16 settembre, aveva criticato le autorità per gli ostacoli posti a tanti prominenti cineasti, che citava per nome: da Mohsen Makhmalbaf (che vive ormai all’estero, dove è diventato una sorta di portavoce culturale del leader dell’opposizione Mir Hossein Musavi) a Jafar Panahi (che era appena stato scarcerato, a Tehran, dopo una lunga detenzione). «Auspico che l’anno prossimo anche loro possano essere qui», aveva detto. La reazione delle autorità è stata immediata: il ministero della cultura ha revocato a Farhadi la licenza per girare il suo film La separazione di Nader e Simin, nel bel mezzo delle riprese: una intera produzione, una cinquantina di persone, era bloccata.
Un provvedimento punitivo, come esplicitato dal ministro della cultura Mohammad Hosseini: «Chiunque approfitterà della copertura del cinema per fare dichiarazioni politiche e minare i valori del sistema sarà duramente condannato», ha dichiarato a Tehran il 30 settembre. Non si tratta solo delle «inopportune» parole pronunciate da Farhadi, ha aggiunto poi: durante quella cerimonia, «alcuni dei partecipanti avevano ai polsi nastri verdi», il colore divenuto il simbolo dei sostenitori di Mir Hosein Musavi, l’ex premier ed candidato presidenziale nel giugno 2009. Ecco cosa fa infuriare il ministro della cultura: il movimento di opposizione, ridotto al silenzio dopo mesi di proteste represse e arresti, osa continuare a manifestarsi - sia pure nell’innocua forma di un nastro al polso. En passant, nella stessa occasione il ministro Hosseini ha aggiunto che il governo toglierà le sovvenzioni statali ai giornali che non sostengono il sistema della Rivoluzione islamica: «Il contributo pubblico sarà pagato d’accordo con l’atteggiamento del giornale, non aiuteremo i giornali che non sono in linea».
Alla fine, Asghar Farhadi ha riavuto la sua licenza: ma nel frattempo il conflitto si è allargato. «Farhadi l’ha spuntata, senza piegarsi a fare le scuse pubbliche che gli chiedevano (si è limitato a dichiarare alle agenzie stampa che era stato «frainteso», ndr) perché tutto il cinema è stato compatto, per una volta», commenta a Tehran una cineasta iraniana: «È una vita che ci battiamo per mantenere aperti spazi culturali e l’abbiamo imparato: se vedono che hai paura ti schiacciano. Se tieni le posizioni, devono cedere».
In effetti, tutta la categoria ha preso posizione a sostegno del regista censurato. Il vincitore della Palma d’oro di Cannes nel 1997, Abbas Kiarostami, di solito attento a non contrapporsi troppo frontalmente, ha scritto un articolo in difesa dell’amico regista sul quotidiano Shargh (che ha ripreso di recente le pubblicazioni, dopo un anno di sospensione forzata). Il governo «ci sta mandando il messaggio che non vogliono il cinema», scriveva Kiarostami, e io «non farò più film in Iran». Non solo: l’intera Casa del cinema di Tehran ha preso posizione per Farhadi, vincendo le remore ovvie in una istituzione che ha i piedi nell’ufficialità. Ed è allora che la vicenda di un regista censurato è diventata uno scontro aperto tra la comunità cinematografica iraniana e il viceministro della cultura (con delega al cinema) Javad Shamaghdari - colui che più volte aveva accusato i filmaker iraniani di non essere attenti ai valori della repubblica islamica. Ora il viceministro lancia un attacco frontale alla Casa del cinema e al suo direttore Mohammad MehdiAsgaripour (che pure è uomo dalla carriera tutta interna alle istituzioni culturali del sistema): lo incolpa per aver tollerato quei famosi nastri verdi. Ma così facendo, ha messo in allarme l’intera comunità dei cineasti, documentaristi, attori, che hanno firmato una lettera a difesa di Asgaripour («l’abbiamo eletto noi») e della propria indipendenza, «per proteggere il cinema di qualità in Iran». Per il momento, il cinema ha vinto: Farhadi gira il suo film, la Casa del cinema conserva il suo direttore. Fino al prossimo braccio di ferro.