Enrico Fierro, Giampiero Calapà, il Fatto Quotidiano 21/10/2010, 21 ottobre 2010
CALABRIA, SCRIVERE CON LA PAURA - QUESTE
sono le storie di giornalisti calabresi minacciati dalla ‘ndrangheta. Ne abbiamo scelte otto e ci scusiamo con gli altri colleghi che a causa del loro lavoro sono costretti a vivere con l’alito fetente dei mafiosi sul collo. Quello che avviene in Calabria non accade in nessun’altra parte d’Italia. Perché qui la democrazia e i diritti costituzionali sono sospesi, la libertà d’informazione è limitata, la libertà di mercato non esiste, il monopolio della violenza non è prerogativa dello Stato, ma delle organizzazioni paramilitari della ‘ndrangheta che controllano ampie parti dei territori.
La politica ha margini ristrettissimi di autonomia nella selezione delle classi dirigenti e deve contrattare ogni passo, ogni scelta, con i boss. Soggetti che detengono pacchetti elettorali e soldi per finanziare campagne dei candidati, comprare deputati e consiglieri regionali, decidere le fortune di leader politici locali e nazionali. C’è un cono d’ombra informativo in Calabria, ha denunciato il procuratore Giuseppe Pignatone. Ha ragione. In Calabria non esistono pagine locali di quotidiani nazionali. Quelli a tiratura regionale sono finanziati da gruppi imprenditoriali che hanno variegati interessi, molti dei quali dipendenti dalle scelte della politica. Per questo in Calabria il mestiere di giornalista-giornalista è difficile e rischioso. Metti in gioco la tua sicurezza, rischi la tua vita. E il tuo lavoro, come è accaduto a Lucio Musolino col suo licenziamento per una odiosa “giusta causa”, come motivato dalla società editrice di Calabria Ora.
Intanto proprio ieri è stato arrestato – grazie alle testimonianze del neo pentito Nino Lo Giudice – Antonio Cortese, presunto bombarolo di Reggio, affiliato al clan del pentito, e ora indicato dallo stesso Lo Giudice come responsabile delle bombe alla procura generale (3 gennaio 2010), al portone di casa del procuratore generale Salvatore Di Landro (26 agosto) e dell’avvertimento del bazooka, fatto ritrovare dopo una telefonata anonima, vicino al tribunale di Reggio (5 ottobre). È sempre di moda, dopo arresti di questo tipo, l’esaltazione leghista, infatti ieri puntuale è arrivata dal Nord la nota del governatore del Veneto, Luca Zaia, per complimentarsi con il ministro degli Interni, Roberto Maroni.
“Il bisogno di sicurezza che gli italiani segnalano costantemente – ha approfittato Zaia – ha oggi una certezza: che la musica è cambiata e che i banditi, a cominciare da quelli più pericolosi, sono inesorabilmente destinati al carcere” . Non a caso l’ex ministro dell’agricoltura utilizza il termine “banditi”, per relegare il fenomeno mafioso a quello del banditismo, combattuto dai piemontesi di Cavour. Ma il questore Carmelo Casabona, parla di risultato che getta le basi per smascherare il “sistema-Reggio”, forse significa che c’è un altro livello dietro i banditi. • LICENZIATO per ingiusta causa da un quotidiano regionale
“Smettila con la ‘ndrangheta. La benzina è per te non per la macchina” . È il tono della lettera che qualcuno ha lasciato nella mia veranda il 1° agosto. Una lettera accompagnata da una tanica piena di liquido infiammabile. Sono entrati nel mio cortile di notte, mentre la mia famiglia era in casa, tranquilla come al solito. Hanno violato la nostra intimità e hanno lanciato un messaggio mafioso. Nelle settimane precedenti avevo scritto del contenuto di un’informativa del Ros inserita nell’inchiesta Met. Con quell’indagine, il sostituto della Dda Giuseppe Lombardo ha messo le mani nell’intreccio ‘ndrangheta-politica che tiene sotto scacco Reggio e la Calabria. Ho scritto che il governatore Giuseppe Scopelliti ha partecipato assieme a molti consiglieri comunali a una pranzo invitato dall’imprenditore arrestato Domenico Barbieri. Lo stesso pranzo a cui ha partecipato il boss Cosimo Alvaro, oggi latitante. Tutto confermato da Scopelliti ai microfoni del fattoquo tidiano.it . Proprio con Alvaro aveva rapporti un consigliere comunale del Pdl, Michele Marcianò. I due sono stati intercettati mentre discutevano di tessere di Forza Italia e di posti di lavoro. E sempre di posti lavoro barattati con 200 voti discutevano il consigliere comunale del Pdl Manlio Flesca con l’imprenditore Barbieri. Sono stato invitato ad Annozero e, in collegamento da Reggio, ho raccontato al collega Stefano Bianchi questa storia. La risposta è stata una minaccia di querela da parte di Scopelliti. Ma del contenuto di quell’informativa avevo scritto negli ultimi mesi. Sono passate poche settimane e il giornale per il quale lavoravo e avevo scritto queste ed altre cose, mi ha licenziato. Per “giusta causa”, è la motivazione. Ecco: in Calabria se scrivi di mafia e politica paghi prezzi altissimi. Ma ne vale la pena.
Lucio Musolino, 27 anni • Vibo Valentia
GUARDO MIO FIGLIO E PENSO: NE VALE LA PENA?
Avevo appena piantato l’ombrellone in spiaggia, quella mattina del 4 luglio. Avrei lasciato mia moglie e mio figlio da lì a poco, per iniziare il consueto giro di cronaca. Mentre baciavo la fronte al bambino, il cellulare - quello di servizio, su un’utenza che al giornale consideriamo “riservata” - ha squillato: “Ti diamo due colpi di fucile e ti tagliamo la testa, poi ti buttiamo dietro il cimitero di Jonadi. La famiglia Soriano te la devi scordare”. Voce giovane, mi avvertiva: “Guardati le spalle”. I Soriano li conosco bene. Il “capo famiglia” prima mi fissava dalla gabbia del Tribunale di Vibo; ora che è scarcerato, in aula, al maxi-processo che lo vede imputato, è spesso il mio compagno di banco. Avevo scritto di lui, ricordo quando dagli arresti domiciliari mandava comunicati ai giornali, come se la sua ‘ndrina fosse un partito. Col mio direttore si decise questo titolo in prima: “Ecco il boss che fa politica”. Il giorno precedente la telefonata, riportai le intercettazioni relative ad un’estorsione compiuta da un suo nipote - erede altronodelcasato-appenafinitoingalera.Ilgiornodellatelefonatascrissicomequello stesso ragazzo, boss in erba, pestò a sangue il preside di una scuola solo perché aveva rimproverato per un ritardo la cugina,figliadel“capofamiglia”mio compagno di banco nell’aula del tribunale. Fui il solo a farlo. Da allora il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza ha disposto una sorveglianza (discreta) sotto la redazione, sotto casa mia e sotto quella dei miei genitori. Ora vado avanti lo stesso col mio lavoro, anche se mi domando, guardando prima mia moglie e mio figlio e poi la deriva del giornalismo e della politica calabrese, se ne valga davvero la pena.
Pietro Comito, 31 anni • Gioia Tauro
“INDESIDERATO” IN MUNICIPIO
La prima volta, nel novembre 2007, ho sottovalutato, non ho denunciato, ho sbagliato. Avevo scritto un approfondimento su uno storico sequestro di beni della cosca Bellocco, nel paese del Reggino dove vivo, San Ferdinando e mia madre trovò sul parabrezza dell’auto di famiglia una busta con dentro un pesce dalla testa mozzata. Non sporsi denuncia per tranquillizzare i miei, rendendomi fragile di fronte alla tecnica del terrore che in questi casi parte da lontano per destabilizzare la quiete familiare e per farti provare la pressione dei congiunti che non vuoi esporre. Nella primavera del 2008, invece, denunciai dopo aver trovato una gomma della mia auto dilaniata da diversi fendenti, mentre era parcheggiata nei pressi della redazione di Gioia Tauro del giornale per cui lavoravo all’epoca e di cui ero responsabile, Calabria Ora. In quei giorni scrivevo degli scandali che riguardavano diversi dirigenti del Comune di Gioia Tauro e dell’allora sospetta compiacenza degli amministratori verso le potenti cosche cittadine, Molè e Piromalli. Sempre in quei giorni e sempre per i miei articoli, venni allontanato da una conferenza stampa indetta nel Municipio dal sindaco, e definito ad alta voce “indesiderato” dal suo figliolo perché il giorno prima, da solo, avevo dato conto di una perquisizione domiciliare notturna anche nei confronti del primo cittadino. Quest’ultimo, dopo il successivo scioglimento per mafia di quel consiglio comunale, oggi è sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito di un procedimento che vede alla sbarra anche il boss Pino Piromalli, lo stesso che in un’intercettazione ambientale in carcere, dialogando con i figli, si era sentito riferire che il mio giornale “è diventato vomitevole” per l’insistenza con cui scriveva della cosca.
Agostino Pantano, 37 anni • Proiettili sull’auto e la mia vita è cambiata
Cinque colpi di pistola contro l’auto parcheggiata sotto casa alle undici di sera il 29 dicembre del 2008. Sono passati due anni dal tentativo di intimidazione. Sembra ieri. L’“avviso” per zittirmi è arrivato in seguito a una inchiesta che avevo fatto qualche mese prima su una discarica di rifiuti abusiva nel Comune dove ancora vivo assieme alla mia famiglia, Cinquefrondi. Un posto sperduto nella Piana di Gioia Tauro dove vivono appena 6 mila persone. Dove si conoscono le facce, i nomi, la gente, l’indirizzo e quanto basta per renderti la vita difficile. I mesi successivi? Duri. Considerato che avevo 24 anni e avevo iniziato a scrivere da poco tempo per Calabria Ora. La reazione alle pistolettate è stata diversa rispetto a quella attesa da chi ha scelto la forza per farmi capire che, comunque, stavo lavorando bene. Ho continuato, grazie a qualche collega a cui oggi devo tanto e grazie a un giornale che allora mi ha sostenuta, a fare il lavoro di sempre. Né più né meno. Non credo che sia stata la mafia ad interessarsi a me. Il Sud e, in particolare, i paesi interni della provincia reggina, devono prima fare i conti con un ambiente che non lascia spazio a chi la pensa in maniera diversa. Colpa di una cultura arretrata e dell’omertà. Da due anni gli attacchi ai giornalisti si sono moltiplicati. Come se non bastasse, nell’altalena di emergenze, la politica continua a fare la sua (non) parte o, nella peggiore delle ipotesi, la parte sbagliata.
Angela Corica, 26 anni • IL SUPERPENTITO PARLA: PRIMO ARRESTO
“Un momento importante per la storia di Reggio Calabria”. Il questore Carmelo Casabona non nasconde il suo entusiasmo per l’arresto di Antonio Cortese, affiliato alla cosca Lo Giudice del quale è l’esperto di armi ed esplosivo. Il suo nome è tra i primi fatti proprio dal boss Nino Lo Giudice che da pochi giorni ha scelto di collaborare con la giustizia. Si è autoaccusato della strategia della tensione che, da dieci mesi, tiene sotto scacco la città dello Stretto con la bomba del 3 gennaio alla Procura generale, il secondo ordigno esploso il 26 agosto sotto casa del procuratore generale Salvatore Di Landro e il bazooka fatto ritrovare a poche centinaia di metri dal tribunale con una telefonata anonima in cui si annunciava un imminente attentato al procuratore capo Giuseppe Pignatone.
È proprio con lui che il boss pentito, dopo essere stato arrestato nell’ambito di un’indagine sulla sua cosca, ha chiesto di collaborare e rivelare cosa si nasconde dietro la serie di attentati in cui la ‘ndrangheta è solo una dei protagonisti. Il fermo disposto dalla Dda, nei confronti di Cortese, riguarda esclusivamente l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. L’arrestato, un commerciante titolare di una profumeria e di un negozio di frutta, sarebbe stato l’esecutore materiale dei tre attentati sui quali, però, indaga la Procura di Catanzaro. Dopo il rinvenimento di alcuni fucili nella sua disponibilità, gli uomini della Mobile (diretti da Renato Cortese, con l’arrestato solo un caso di omonimia) hanno girato le manette ai polsi all’armiere dei Lo Giudice, bloccato al confine tra Italia e Slovenia. Stava rientrando con un pullman dalla Romania. “Antonio Cortese stava rientrando proprio per consegnarsi, per chiarire e per respingere le accuse che gli muove Antonino Lo Giudice”, afferma l’avvocato difensore di Cortese, Giuseppe Nardo. L’arresto di Cortese è il primo eseguito dalla Dda reggina in seguito alle dichiarazioni del pentito Lo Giudice. Non è l’unico “pezzo da novanta” che ha deciso di collaborare nelle ultime settimane. Secretati i verbali di Consolato Villani e, soprattutto, di Roberto Moio, nipote del boss Giovanni Tegano.
Tremano i “poteri occulti”, pupari della strategia della tensione. E trema a politica reggina già al centro di numerose inchieste della Direzione distrettuale antimafia. “Procederemo senza guardare in faccia nessuno” avverte il procuratore Pignatone. Lu. Mu. •
Antonio Sisca, 64 anni
Abito a Filadelfia, un centro a cavallo tra il Vibonese e il Lamentino. Da almeno 25 anni scrivo per la Gazzetta del Sud e scrivo di mafia dove non si deve. La zona del bacino dell’Angitola (Filadelfia, Francavilla, Curinga, Pizzo) non è più un’isola felice, almeno dal 1985, da quando i grandi appalti sulla Salerno-Reggio e quelli della costruzione del doppio binario cominciarono a fare gola ai mafiosi. Insomma, i boss che prima si dedicavano ai sequestri di persona mutarono strategia perché capirono che era più facile e meno pericoloso fare una montagna di soldi attraverso il racket delle estorsioni e il traffico della droga. La ‘ndrangheta aveva bisogno come l’aria del silenzio. Da venti anni sulla GazzettadelSudscrivo di traffico di droga, racket delle estorsioni e dei tanti casi di lupara bianca di cui sono rimasti vittime nel territorio di Filadelfia sei giovani tra i 20 e i 29 anni. Da qui una serie di minacce dapprima più o meno velate, pian piano diventate concrete con l’incendio della mia auto. Ho continuato, anche se la paura era tanta per le minacce nei miei confronti e dei miei familiari. Ho ricevuto pallottole, lettere anonime che riportavano parole come “sbirro, merda”, e altro. O frasi come: “Uccideremo te, tua moglie e tuo figlio”. La mattina di alcuni anni fa venni fermato inpiazzadaunodegliappartenentiaunclanche opera in zona; dopo avermi “ invitato “ a non scrivere più di droga o estorsioni mi chiese quanto mi dava il giornale per ogni pezzo che veniva pubblicato, poi mise le mani in tasca e mi offrì una somma rilevante in cambio del silenzio. Naturalmente denunciai la cosa al maresciallo dei carabinieri. Eppure nei Consigli comunalicifuchidissechelamafiaaFiladelfianon esisteva perché non vi erano le condizioni economiche necessarie che attirassero gli appetiti mafiosi. L’ultima minaccia l’ho ricevuta a settembre del 2009; in una lettera qualcuno mi “consigliò” di non scrivere più di casi di lupara bianca altrimenti la lupara me l’avrebbero messa in bocca. •
Antonino Monteleone, 25 anni
RACCONTO (prevalentemente sul Web) di come la ‘ndrangheta accresca la propria forza anche attraverso il silenzio delle persone oneste, dell’indifferenza e della rassegnazione. Un giorno ho raccontato di come alcuni giovani picciotti salutavano con commozione un boss catturatodopo10annidilatitanza.Volavanodei baci che il boss ricambiava. Ho raccontato di come quella famiglia di ‘ndrangheta potesse continuare ad esercitare il suo carisma in una città dalla memoria corta come Reggio Calabria. Dei rapporti controversi tra alcuni politici e uomini a metà tra l’affarismo senza freni e le ‘ndrine. Dopo gli “avvisi” la mia auto è stata incendiata. Non me ne è fregato nulla, convinto, come che sia meglio ricomprare l’auto che vendersi la penna. In molti mi chiedono se valga la pena continuare. Rispondo sempre di sì. Scrivere per stimolare i lettori a voler sapere ancora di più, rendere concreta l’idea che una maggiore consapevolezza sia la chiave giusta per cambiare le cose. Ho sempre considerato l’informazione come una risorsa preziosa per il cittadino nelle vesti di lavoratore, elettore, consumatore, contribuente. Il prodotto che dei professionisti, pagati bene, si occupano di realizzare analizzando ciò che è necessario per sapere quale sindacato li tutela, come si comportano i governanti, di quale cibo ci nutriamo e come vengono spesi i soldi pubblici. Per un padrone. Il lettore, appunto. Nel giornalismo antimafia si cerca proprio questo. Creare un’opinione pubblica consapevole in grado di provare sdegno nei confronti di un sistema che si arricchisce con la violenza a scapito degli onesti, che crea un rapporto di reciprocità con la politica, che avvelena i territori e disprezza il valore della vita umana. • Ferdinando Piccolo, 23 anni
MI CHIAMO Ferdinando Piccolo,collaboro con il Quotidiano della Calabria, corrispondente di San Luca e dintorni. La voglia di dire no alla ‘ndrangheta ha smarrito la strada, al bivio tra San Luca e Bovalino. Ormai siamo troppo abituati ad alzarci con la puzza di sangue e coricarci con i vestiti impregnati di ‘ndrangheta. Una bella storia da raccontare. Per un giornalista. Un giovane corrispondente che, quando può, dà una mano al padre barbiere a Bovalino. E quella bella storia la racconto sul Quotidiano, il 4 settembre, due giorni dopo il retorico via vai di politici al santuario della “madonna della ‘ndrangheta”. Riti, usi, costumi, tradizione, Osso e Mastrosso. Accade così, che in un sabato di settembre, proprio sotto la vetrina del negozio di papà, trovo una busta, cinque pallottole e un messaggio di morte: “La ‘ndrangheta non scherza, continua così e sei un morto che cammina”. In quei giorni, il 4 settembre, avevo scritto di una strada che collega Polsi a San Luca. Una strada da sistemare da almeno venti anni. Scrivo di un appalto di 12 milioni di euro vinto nel ‘96 da una ditta di Crotone che era poi andata in fallimento e del subappalto concesso a un’altra ditta di San Luca il cui proprietario aveva dichiarato di non aver mai ricevuto denaro. Una strada. Quella che da San Luca conduce al santuario di Polsi. La fatiscenza di quellastrada,el’appaltopersistemarla.Soldiche scompaiono nel nulla. Nulla ne sa il proprietario della ditta di San Luca, un Nirta incensurato. Nulla si sa di quella crotonese, nel frattempo fallita. • Giuseppe Baldessarro, 43 anni
HANNO PENSATO a me il 19 febbraio. Li ha infastiditi una cosa che avevo scritto quel giorno . Un approfondimento sul processo Eremo, contro gli affiliati del clan Crucitti. Già condannati per associazioe mafiosa; ho rigurardato un’informativa nella quale si parlava di elezioni regionali. Incontri intercettati tra mafiosi e politici in vista del voto del 2005. Nessun reato, solo parole. Parole che però tiravano dentro consiglieri di circoscrizione e candidati alla Regione, pure un “amico” prete veniva citato come collettore di voti.
Il 22 febbraio sulla mia scrivania in redazione trovo una lettera composta con i ritagli del giornale di quel giorno: “Giuseppe Baldessarro. Andare oltre significa morte”.
Nella busta il piombo di una cartuccia di fucile calibro dodici. Non mi ha sorpreso, mi occupo di giudiziaria da alcuni anni, e sapevo che prima o poi qualcuno avrebbe reagito. Non mi ha neppurespaventato,chifail nostromestierein Calabria certe cose le mette in conto. Ho denunciato e poi sono tornato al mio lavoro, come sempre. Non è cambiato nulla nella mia vita, non l’ho consentito. Ho preteso che tutto restasse come prima sia sul piano professionale che privato. Non voglio che la ‘ndrangheta possa pensare di aver spostato qualcosa. Sono sempreio,sonosemprequaescrivoconlapassione di sempre. Il nostro è un mestiere bello ed entusiasmante, ed io non conosco un altro modo di farlo.