GABRIELE BECCARIA, La Stampa 20/10/2010, pagina 27, 20 ottobre 2010
“I miei voli in cima alle foreste” - Solo 60 alberi a testa? E’ sicura? «Certo che sì». Inconsueta sintesi di botanica e scalatrice, a ogni domanda Nalini M
“I miei voli in cima alle foreste” - Solo 60 alberi a testa? E’ sicura? «Certo che sì». Inconsueta sintesi di botanica e scalatrice, a ogni domanda Nalini M. Nadkarni risponde entusiasta. E’ una delle esploratrici del «Pianeta Verde», dal Costa Rica alla Guinea: di foreste e giungle - spiega - sappiamo poco, soprattutto di quelle che sfuggono ai nostri occhi, in uno strato intermedio, sospeso «tra la terra e il cielo», come recita il suo saggio. Professoressa, come è arrivata a calcolare la cifra di 60? «Con i dati satellitari, dividendo il numero di alberi per ettaro, a seconda delle foreste, per la popolazione mondiale. Il motivo del calcolo è che, quando si parla di deforestazione, le cifre sfuggono alla nostra percezione. Ho voluto trovare una cifra più “umana”, che aiuti a comprendere la portata della perdita di cui siamo responsabili». Quanto è grave? «Nel 1850 c’erano 622 alberi per persona e, se si estrapolano le future distruzioni e la crescita demografica, nel 2020 ne saranno rimasti appena 22». Di quanti ne avremmo bisogno per compensare gli sprechi di un occidentale? «Un adulto americano o europeo usa 3-4 alberi l’anno, dalla casa alla carta per l’ufficio. Se viviamo 80 anni, significa che ne stiamo consumando più di quanti sono disponibili, vale a dire i famosi 60. E’ una logica insostenibile». C’è ancora un luogo dove gettare uno sguardo sulla foresta primordiale? «Non c’è area del mondo che non sia toccata dall’impronta umana: anche nel mezzo dell’Amazzonia o della taiga in Alaska e in Russia si osservano le conseguenze dell’inquinamento atmosferico, con la crescita dei livelli di CO2 e ozono». E’ davvero impossibile fare un viaggio nel tempo? «In realtà, per fortuna, ci sono ancora dei luoghi, ai Tropici e nell’area temperata, dove inoltrarsi ed esclamare: “Qui lo spettacolo è simile a ciò che esisteva prima dell’uomo!”». Uno spettacolo che non smette di attrarci: molti credono che ci sia stato un tempo in cui la Terra era un’unica foresta: vero o falso? «Falso: gli alberi sono ciclicamente “andati” e “venuti”, seguendo i ritmi delle glaciazioni. Quattordicimila anni fa - un periodo tutt’altro che lontano - il Nord del modo era ricoperto dai ghiacci. D’altra parte, l’uomo non ha mai smesso di disboscare: basta pensare ai nativi americani». Oggi, mentre l’Amazzonia brucia, in Nord America la riforestazione prosegue: i programmi funzionano? «Per certi aspetti sì. Possono fornire molti dei beni e servizi che una foresta intatta garantisce, ma ciò che non si può ricostruire veramente è la “wilderness”, lo stato selvaggio originario». Perché il «restauro» è così difficile? «Per due motivi: la biodiversità primordiale ha tempi estremamente lunghi e, secondo, spesso si piantano alberi alieni all’habitat. Si preferiscono quelli che crescono in fretta o con utilizzi industriali specifici. Qui dove vivo, nel Northwest americano, sulla costa del Pacifico, si diffondono conifere come le “Douglas-fir”: sono grandi e belle, ottime per ottenere legname edilizio, ma non per favorire la riproduzione di insetti e uccelli». Qual è l’albero che considera più affascinante? «Se devo pensare a una sorta di albero universale, dico che è il fico. In Costa Rica ne ho visti di enormi. I rami si allargano a dismisura, per metri e metri, e questa accumulazione è straordinaria, garantendo un habitat ricchissimo: per molti animali è un vero supermarket. Ma è speciale anche da un punto di vista culturale e spirituale: dove Buddha ha raggiunto l’illuminazione? Sotto un fico! E da lì ha diffuso il suo messaggio di pace. In India, dove mio padre è nato, il banyan - che è un tipo di fico - si pianta nel mezzo dei villaggi ed è sotto la sua ombra che la gente si raccoglie per incontrarsi. Diventa il cuore di tutto, simbolicamente e fisicamente: offre cibo e riparo, oltre che connessioni umane e metafisiche». Lei è diventata famosa per le ascensioni sul «canopy», la volta delle foreste, a 30-40 metri d’altezza. «Ci vuole forza e il giusto training: uso le tecniche di scalata alpinistiche, con corde, imbracature e un dispositivo autobloccante noto in gergo come “jumar”. Bastano 15-20 minuti e arrivo al top, a oltre 35 metri. Non si usano chiodi e quindi non si danneggia l’albero». Fino a poco tempo fa là sopra non ci andava nessuno: per gli studiosi - ha scherzato - era «roba da Tarzan». «Vero! Quando ho iniziato non esisteva una vera ricerca sul campo e tantomeno una disciplina. Tutti mi ripetevano: “No, Nalini, non perdere tempo, stai con i piedi per terra”». E invece perché è un microcosmo tanto importante? «E’ decisivo per il ciclo globale della foresta: le piante che vivono in questo ecosistema raccolgono acqua e nutrienti dalle piogge e dai processi di condensazione e li trasmettono in basso, fino al suolo, e allo stesso tempo contribuiscono a stabilizzare il clima terrestre, intercettando e immagazzinando l’anidride carbonica». Lei ha scoperto che lassù prosperano una flora e una fauna uniche: le racconta? «E’ come una città di grattacieli, dove tanti organismi vivono nelle penthouse e non scendono mai al piano terra: ci sono formiche e vermicelli particolari, uccelli e topi arboricoli, che puoi tenere nel palmo della mano: di notte sono loro a impollinare i fiori. E’ una delle stranezze del mondo che pulsa tra terra e cielo».