Ubaldo Casotto, Il Riformista 20/10/2010, 20 ottobre 2010
CRISTIANI IN MEDIO ORIENTE LA SFIDA DI UN EVENTO REALE
«La cristianofobia è oggi un rischio crescente e sempre più concreto». Lo ha sostenuto il ministro degli Esteri, Franco Frattini intervenendo, ieri mattina in Campidoglio a un convegno a margine del Sinodo sui cristiani in Medio Oriente, organizzato dal Comune di Roma in collaborazione con Radio Vaticana e il centro internazionale di Comunione e liberazione. Spesso, ha osservato Frattini, in paesi come l’Iraq o il Libano i movimenti integralisti «confondono i cristiani con una caratterizzazione culturale dell’Occidente da colpire».
Prima di lui, il segretario generale del Sinodo, monsignor Nikola Eterovic, aveva icasticamente descritto lo scenario in cui questo «rischio crescente di cristianofobia» si concretizza. «È utile precisare che per Medio Oriente - ha detto Eterovic - si intendono i seguenti paesi: Arabia Saudita, Bahrein, Cipro, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Iran, Iraq, Israele, Kuwait, Libano, Oman, Qatar, Siria, Turchia, Territori Palestinesi e Yemen. Su tale vasta regione che si estende su 7.180.912 kmq vivono 356.174.000 persone, di cui 5.707.000 cattolici, che rappresentano l’1,6 % della popolazione. Al contempo, il numero approssimativo dei cristiani sarebbe di circa 20 milioni di persone e cioè il 5,62 % della popolazione». Numeri in cui si sostanzia l’esodo forzato che ha coinvolto negli ultimi decenni le comunità cristiane dell’area.
Di fronte a questa fuga sempre più massiccia dei cristiani dai luoghi d’origine della loro fede, ieri nella sala Protomoteca del Campidoglio aleggiavano due domande. La Chiesa è destinata a sparire dai paesi che la videro nascere e di lì irradiarsi nel mondo? Oppure: per quale motivo un cristiano dovrebbe resistere e decidere di restare in una situazione così ostile, fino al rischio della vita e della sopravvivenza?
La prima questione è rimasta inespressa, nessuno la vuole considerare neanche come ipotesi. La seconda è stata affrontata dall’intervento di don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e liberazione, che in Terra Santa e in molti paesi del Medio Oriente ha significative presenze.
Il sacerdote spagnolo è partito da una frase di Benedetto XVI in Portogallo per spiegare un atteggiamento comune oggi a tutti cristiani, in Oriente e in Occidente: «Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista». Una fede accolta, commentava Carrón, talvolta «più come una consuetudine che come una opzione piena di ragioni», incapace quindi di reggere alle sfide odierne, sino a indurre molti ad «abbandonare la propria terra e la propria appartenenza». Per questo, argomentava, è sempre più urgente «una educazione alla fede che dimostri la sua pertinenza alle esigenze della vita».
Per Carrón la cristi dei cristiani di fronte alle sfide del tempo non è diversa da quella di tutti gli altri uomini: c’è, a dire del sacerdote ciellino, una «crisi dell’umano», «un venir meno dell’uomo nella sua capacità di usare la ragione secondo la sua vera natura di apertura alla totalità del reale, nella sua capacità affettiva d’adesione alla realtà», insomma, un «disinteresse e un’apatia diffusi» da cui «non è esclusa la fede cristiana».
A questa debolezza costitutiva, che è del soggetto, in Medio Oriente si aggiungono «oggettive situazioni di sofferenza, di minaccia contro i diritti fondamentali, di emarginazione, di soffocamento della libertà». La sfida, in questa situazione, dice Carrón, «consiste nel vivere il contenuto della fede in modo da mostrare la sua rilevanza antropologica». I cristiani invece, purtroppo, spesso mostrano al mondo «forme ridotte» della loro esperienza. Carrón ne ha individuate due: la fede ridotta a «discorso devoto», a dottrina, a nozionismo, a un «insieme di regole tramandate senza riferimento alla vita reale», a «cornice comportamentale e abitudinaria». «Possiamo immaginare - si è chiesto retoricamente - l’interesse che potrà rivestire questo cristianesimo per l’uomo che lotta nella realtà, che si dibatte nel dramma del vivere quotidiano...».
L’altro errore segnalato è la «riduzione del cristianesimo a etica, a valori», che già Papa Luciani accusò come «il vero dramma delle Chiesa che ama definirsi moderna»: «il tentativo di correggere lo stupore dell’evento di Cristo con delle regole». Queste riduzioni, è stata l’amara ma realistica conclusione del responsabile di Cl, «relegano il cristianesimo nell’insignificanza».
Dov’è, allora la speranza per i cristiani del Medio Oriente? Non certo nella «ripetizione verbale o culturale dell’annuncio» ha detto il successore di don Giussani citandolo, ma «un impatto umano» con persone per cui «il fatto di Cristo è realtà così presente che la loro vita è cambiata». Non una decisione etica o una grande idea, come ha ricordato Benedetto XVI nella sua prima enciclica (Deus caritas est), «bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». Carrón ha voluto qui sottolineare come, per la diffusione del cristianesimo, questo metodo - «l’incontro con la persona di Gesù» - sia quello originario e - a dispetto di tutti gli studi sociologici, le tecniche e le strategie comunicative, e i “piani” elaborati negli uffici pastorali, che il sacerdote spagnolo non ha citato, me che doveva avere ben presenti - rimanga «l’unico in ogni tempo».
Nel silenzio attento della platea, con in prima fila tutti i patriarchi delle Chiese mediorentali, il Custode di Terra Santa, il francescano padre Pier Battista Pizzaballa, e con a fianco il segretario generale del Sinodo, monsignor Eterovic, Carrón ha quindi affrontato la questione fondamentale: «Come l’avvenimento di Cristo resta contemporaneo lungo la storia?». Certo, la Chiesa come strumento per entrare in relazione diretta con Lui attraverso il metodo della «comunione» e delle «testimonianza», parole d’ordine di questo Sinodo; ma con una sottolineatura esistenziale, che Carrón ha voluto indicare citando ancora una volta don Giussani: «L’avvenimento di Cristo diventa presente “ora” in un fenomeno di umanità diversa, un uomo vi si imbatte e vi sorprende un presentimento nuovo di vita (...) Quest’imbattersi della persona in una diversità umana è qualcosa di semplicissimo, di assolutamente elementare, che viene prima di tutto, di ogni catechesi, riflessione e sviluppo: è qualcosa che non ha bisogno di essere spiegato, ma solo di essere visto». Da questo punto di vista, ha concluso - mostrando come la speranza per il futuro dei cristiani del Medio Oriente venga dall’esperienza di una fede viva già presente in quei luoghi - «sono commoventi certe testimonianze... che ci ricordano che la Terra Santa e i suoi dintorni non sono semplicemente un punto di identità cristiana, bensì soprattutto luoghi di memoria viva di Cristo morto e risorto». Un modo per dire anche che affidarsi unicamente alla cultura che dalla fede nasce è, per la fede stessa, mortifero.