Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 19/10/2010, 19 ottobre 2010
COME I MARMISTI ROMANI HANNO COLORATO LA CITTA’ - C’ è
l’ alabastro cotognino proveniente dall’ Egitto e quello ciliegino che si scava a Palombara, il marmo cipollino mandolato che arriva dalla Francia e il fior di pesco dalla Grecia, il giallo tigrato e la lumachella nera, la serpentina verde e il porfido rosso: per ogni pietra Dario Del Bufalo, architetto ed esperto di marmi antichi, ha trovato una storia e ogni storia fa riferimento ai «marmorari magistri romani», gli artigiani che nel corso dei secoli si sono dedicati alla lavorazione di queste pietre per adornare prima i palazzi dell’ Urbe ai tempi degli antichi imperatori e poi le chiese medievali e rinascimentali. E «Marmorari magistri romani» (ed. L’ Erma di Bretschneider) è il titolo del libro che Del Bufalo presenta oggi alle 18 nella Sala del Consiglio al ministero dei Beni culturali insieme a Vittorio Sgarbi, Folco Quilici, Mario Lolli Ghetti e all’ abate di Montecassino, Piero Vittorelli. Il volume, che è stato realizzato nel sesto centenario dell’ Università dei marmorari di Roma, prende spunto dalle scuole marmorarie della città, note con il nome di Cosmati, per offrire un panorama inedito e affascinante della storia di Roma, scritta nella pietra e nei suoi colori. Ci volle del tempo perché i preziosi marmi colorati provenienti da ogni parte del Mediterraneo riuscissero a conquistare gli austeri cittadini della Repubblica. Soltanto con Augusto, quella che è ormai diventata la capitale dell’ impero si trasforma completamente. I sontuosi palazzi in marmo bianco e in travertino prendono il posto delle case in tufo rosso. Riferisce Plinio che anche gli artigiani dell’ Urbe ci misero un bel po’ a scoprire gli strumenti adatti a «secare» le costose pietre provenienti dalle contrade più remote. Ma alla fine questi artigiani raggiunsero una maestria tale che Roma diventò il fulcro del commercio e della lavorazione dei marmi in tutto il Mediterraneo. Il volume degli affari crebbe in maniera così esponenziale da indurre i sovrani a sottrarre il commercio dei marmi all’ iniziativa privata e a disporre una serie di norme per regolarne lo svolgimento e contenerne, almeno formalmente, gli eccessi. L’ epoca d’ oro dell’ afflusso a Roma di marmi stranieri si protrasse costantemente per circa quattrocento anni, fino alla fine del terzo secolo. I blocchi venivano portati dalle navi fino a Ostia, risalivano il Tevere e venivano scaricati sulla riva sinistra del fiume, tra l’ Aventino e il Testaccio, poi smistati, dopo essere stati siglati, presso le botteghe dei marmorari, nella zona di Tor di Nona. Nel medioevo antico, si cominciarono a riusare i marmi di una capitale ormai ridotta in macerie per abbellire le basiliche di Roma e del Lazio. Un riuso, che nel caso dei marmorari, permette di preservare e rinnovare la tradizione lapicida antica, della quale viene custodito anche il valore simbolico, politico e religioso.
Lauretta Colonnelli