Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 20/10/2010, 20 ottobre 2010
L’ITALIA IN AFGHANISTAN LE INTENZIONI E LA REALTÀ
Alle lezioni di Tattica militare all’Accademia di Modena imparai che la guerra di difesa o statica è propedeutica al fallimento sicuro mentre le guerre d’attacco o di movimento, come quelle di Napoleone, delle armate tedesche dal ’39 e di Israele nel ’67 sono una premessa per la vittoria contro forze superiori e organizzate nel territorio. A tutti piace chiamare i militari che occupano l’Afghanistan soldati di pace che svolgono una missione di pace. Ma questa ipocrisia invece di aiutare a svolgere quella missione la sconvolge proprio dall’interno. Dire che quei militari hanno sparato solo per difendersi è un assurdo concettuale suicida dal punto di vista militare, in quanto questa mentalità, prettamente politica, porta inesorabilmente alla loro falcidia giorno dopo giorno. Due sono le alternative: o venire via subito, dichiarando l’impossibilità di emancipare democraticamente quei popoli, o coinvolgere tutta l’Europa con il fine di intervenire in forma globale preventiva, rastrellando tutti i sobborghi di quel Paese. Una mezza via non sussiste, in quanto pagheremmo solo «noi» e, quel che è peggio, inutilmente.
Roberto Pepe
robertopepe@teletu.it
Caro Pepe, ho dovuto accorciare la sua lettera, troppo lunga per lo spazio di questa pagina, ma credo di averne salvato i passaggi essenziali. Penso che occorra sgombrare il terreno anzitutto da un pregiudizio giuridico. Non è vero che l’Italia abbia ripudiato tutte le guerre. Con l’articolo 11 della sua Costituzione, l’Italia «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Se lo volesse, il governo potrebbe replicare che non stiamo offendendo la libertà degli afghani (ben altrimenti offesa dai talebani durante il loro regime) e che il tentativo americano di comporre la vertenza politicamente, dopo l’11 settembre, quando chiesero a Kabul di cacciare Osama Bin Laden dal Paese, si scontrò con il rifiuto del regime. Non basta. Il governo, se lo volesse, potrebbe ricordare agli italiani che nell’ottobre del 2001, dopo l’attacco alle torri gemelle, un consiglio straordinario della Nato ritenne che la situazione giustificasse l’applicazione dell’articolo 5 del Patto Atlantico, dove è detto che l’attacco armato contro un membro obbliga gli altri a intervenire in suo aiuto. Se la guerra che si combatte oggi in Afghanistan è la continuazione di quella che George W. Bush lasciò incompiuta dopo l’invasione dell’ottobre 2001, il governo può sostenere, se lo vuole, che l’Italia sta semplicemente rispettando i termini di un trattato internazionale, allora accettato dalla maggioranza del Parlamento.
Il governo potrebbe, se lo volesse. Ma dopo la dissennata guerra all’Iraq del marzo 2003 preferisce conformarsi all’interpretazione dell’articolo 11 che prevale da allora nella società italiana. Il risultato, come è stato ricordato sul Corriere da Franco Venturini, è la insopportabile dose di ipocrisia che affligge il discorso pubblico sull’Afghanistan. Il nostro contingente è stato inviato in un Paese dove si combatte, i nostri soldati sono considerati nemici dalla guerriglia talebana e devono comportarsi di conseguenza. Ma la «correttezza politica» vuole che la missione sia definita «di pace». Come se fosse possibile fare la pace in un Paese dove, per il momento, occorrerebbe anzitutto terminare la guerra.
Sergio Romano