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 2010  ottobre 19 Martedì calendario

LA GUERRA MONDIALE DEGLI STUPRI


Datiwa non potrà di­menticare. Il sole basso, rosso come il fuoco, sembrava incen­diare i rami dei baobab. E poi quella brutalità be­stiale. Aveva 15 anni. «Quando sono tornata al villaggio, ho scoperto che non solo io, ma anche le altre donne, anche mia madre e mia nonna, erano state violentate dai milita­ri ». Congo, Liberia, Ciad, Dar­fur, Cecenia, Kirghizistan, Afghanistan, Messico, Hai­ti. Non c’è continente che sia immune dal crimine di stupro commesso in zone di conflitto. L’immagina­rio collettivo vede nella violenza sulle donne l’im­pulso di militari imbarba­riti dalle guerre. «Non è e­satto. Lo stupro non è un effetto collaterale». Mar­got Wallström è categori­ca. Per il rappresentante speciale dell’Onu contro le violenze sessuali nei con­flitti armati, gli abusi nel corso di guerre «sono una delle principali sfide del nostro tempo, una vera ar­ma tattica usata dagli e­serciti ». Non si tratta solo di umi­liare le etnie ’nemiche’. Lo scopo è di dividere le famiglie, cancellare interi gruppi, diffondere malat­tie come l’Aids e soggioga­re le popolazioni anche per il tempo a venire. Un’arma non convenzio­nale adoperata per com­piere il genocidio, fisico e psicologico, di intere po­polazioni. «Mio marito mi ha ripudiata – ha raccon­tato a un osservatore Onu Miryam, congolese madre di due figlie, in attesa del terzo –. Mi ha detto di tor­nare dai miei genitori in­sieme ai nostri bambini.

Poco tempo dopo ho sco­perto di essere rimasta in­cinta durante i giorni del­le violenze. Ci avevano rin­chiuse in tante, e ci pren­devano anche cinque vol­te al giorno. Adesso, quan­do esco, la gente dice che mio marito mi ha scaccia­ta ». Come se neanche la storia recente sia riuscita a inse­gnare granché. Il bagno di sangue nella ex Jugoslavia del resto ha fatto scuola. Nella dissolta federazione balcanica alla fine degli anni 90 vennero istituzio­nalizzati i ’campi di stu­pro’. Si stima che in Bo­snia durante la guerra cir­ca 50mila donne siano sta­te violentate. Qualche an­no prima in Ruanda, du­rante il ge­nocidio del 1994, furo­no bruta­lizzate tra le 250 mila e il mezzo milione di donne d’o­gni età.

E pensare che già nel 1863 il presidente ameri­cano Abramo Lincoln die­de l’ordine alle truppe u­nioniste di astenersi da qualsiasi violenza sessua­le, che da quel momento sarebbero state conside­rate «una grave violazio­ne ». Da allora i trattati in­ternazionali e le conven­zioni sul Diritto di guerra hanno rincarato le pene contro chi si macchia di questi crimini. Ma poi, nella realtà, a pagare so­no in pochi. Secondo Amnesty International, per le 50mila donne a­busate in Bosnia solo per una trentina di casi è stato istruito un pro­cesso: 18 davanti al Tribunale interna­zionale dell’Aja e 12 dai giudici del Tribunale per crimini di guerra di Saraje­vo. Oltre ai trau­mi riportati, le vittime di questi crimini di guerra, ha spiegato l’in­vestigatore di Am­nesty, Marek Marczynski, vengono an­che stigmatizzate dalla so­cietà: «Molte non osano parlare pubblicamente, perché numerosi autori di tali violenze vivono nelle loro stesse comunità dove hanno assunto posizioni di potere».

La riprova viene ancora da Est. Appena quattro mesi fa il Kirghizistan è stato teatro di una fiammata an­tietnica che ha colpito la minoranza uzbeka che vi­ve nel Sud della Repubbli­ca centroasiatica. Fra i ri­fugiati si contano almeno 40mila tra donne e bambini testimoni di in­cendi, saccheggi, stupri e omicidi di massa. La brutalità anche in que­ste aree non è mai frutto delle bestiali pulsioni degli uomini in divisa o dei pa­ramilitari. Fa parte dei pia­ni di attacco, esattamente come ne fanno parte le manovre dei battaglioni corazzati o i colpi dell’ar­tiglieria pesante. «L’uno – racconta un osservatore Onu impegnato a rico­struire i fatti dei recenti scontri in Congo – non e­sclude l’altro. Strano a dir­si, ma al tempo degli eser­citi ipertecnologici, armi convenzionali ed armi non convenzionali sono complementari».

La recente Risoluzione 1820 del Consiglio di sicu­rezza delle Nazioni Unite ha condannato lo stupro in quanto vera arma di guerra, sostenendo che fermare la violenza ses­suale nelle zone di con­flitto è un mezzo impor­tante per mantenere la pa­ce e la sicurezza a livello internazionale. Il docu­mento è stato approvato all’unanimità nel giugno del 2008, ma pochi mesi l’impegno fu violato pro­prio da chi lo aveva preso. Nell’agosto successivo, in Georgia la Russia aveva ri­calcato le strategie belli­che adoperate in Cecenia. Secondo un rapporto del­l’Unione europea dedica­to al conflitto lampo, in quella regione accanto ai carri armati e ai sofistica­ti team informatici prota­gonisti della guerra elet­tronica, venne affiancata un’arma infame.

«Diversi elementi – si leg­ge nell’investiga­zione di Bruxelles – suggeriscono che la pulizia etnica è sta­ta praticata contro la popolazione georgiana dell’Os­sezia del Sud du­rante e dopo il con­flitto ». Se per un verso l’Ue sostiene che da entrambi i lati sono stati commessi diversi cri­mini in violazione del di­ritto internazionale uma­nitario e dei diritti umani, solo da una parte sono ar­rivati «attacchi indiscrimi­nati, trattamenti degra­danti, stupri, assalti, pre­se di ostaggi ed arresti ar­bitrari », commessi consa­pevolmente «anche dopo il cessate il fuoco». I col­pevoli? «Le milizie del­l’Ossezia del Sud e i mili­tari irregolari, non con­trollati adeguatamente dalle forze russe».