Nicola Borzi, Il Sole 24 Ore 19/10/2010, 19 ottobre 2010
IL NUOVO BANCARIO: GIOVANE, PRECARIO E PARLA INGLESE
Anche in banca il lavoro è sempre più precario. Secondo il Centro studi della Fabi, che ha elaborato dati Abi, dal 2005 al 2008 le assunzioni a tempo indeterminato nel credito sono calate del 12,7% ad appena il 28,8% del totale. I contratti flessibili sono aumentati di pari passo. A fine 2009, secondo le stime della Fabi, i precari allo sportello erano 17.800, il 4,6% della forza lavoro complessiva pari a circa 335mila bancari. Di questi, 2.800 erano impiegati nelle banche di credito cooperativo, 10.823 nei grandi gruppi bancari, sorti dopo l’ondata di aggregazioni iniziata nel 2006, mentre 4.177 lavoravano nelle banche e nei gruppi di piccole dimensioni. La quota percentuale più elevata, rispetto alla forza lavoro di segmento, era localizzata nelle banche di credito cooperativo (il 6,3% dei dipendenti), nel Centro e al Nord. Ma solo perché al Sud si assume di meno. La maggior facilità, in caso di necessità, a licenziare i dipendenti precari si traduce nella diffusa impossibilità dei precari a sottrarsi alle pressioni aziendali, specie sul fronte delle campagne commerciali.
Quanto al costo del lavoro, secondo il centro studi della Fabi uno sportellista assunto con contratto precario costa mediamente dai 100 ai 150 euro netti mensili meno di un bancario stabile. A parità di mansioni, lo sportellista assunto con contratto a tempo indeterminato riceve ogni mese una retribuzione lorda di 2.018 euro, mentre l’apprendista o il bancario con contratto d’inserimento è inquadrato con due livelli in meno e guadagna 1.823 euro lordi. Differenza che sale addirittura al 54% a confronto della remunerazion degli impiegati assunti prima del 1985.
Ecco perché «stabilizzazione dei precari e nuova occupazione sono un obiettivo fondamentale che perseguiamo in tutti i gruppi», spiega Lando Sileoni, segretario generale della Fabi. «Non va dimenticata la questione degli esodi: la Fabi non può accettare che, a livello normativo, si prevedano uscite prima volontarie e, in caso di mancato raggiungimento delle previsioni, obbligatorie. Se nel rinnovo del contratto nazionale l’Abi intende proporre questa formula, andremo allo scontro. Ubi e UniCredit non fanno testo: ogni gruppo deve poter gestire la sua situazione in totale autonomia», conclude Sileoni.
L’intesa di UniCredit assume un rilievo particolare in vista delle trattative sul rinnovo del contratto nazionale, in scadenza a fine anno. L’accordo di ieri è molto diverso da quello firmato il 2 febbraio in Intesa Sanpaolo, che prevedeva 1.100 assunzioni tra le quali 600 destinate a giovani e disoccupati, ma a condizioni inferiori per i primi quattro anni a quelle del contratto nazionale. «Quell’accordo, che non firmammo, riduceva il salario del 30% e derogava al contratto nazionale. L’intesa in UniCredit prevede un taglio del 6,5% dello stipendio per quattro anni, ma per la sola parte aziendale. Inoltre abbiamo previsto forme di solidarietà intergenerazionale. Con la disoccupazione giovanile al 28%, proponiamo a sindacati e politica un progetto straordinario per dare risposte concrete»», spiega Agostino Megale, segretario generale Fisac/Cgil.
Ma secondo Francesco Micheli, responsabile Abi per i rapporti con i sindacati e senior advisor di Intesa Sanpaolo, i due accordi «vanno portati a sistema e devono essere messi a disposizione dell’intero comparto, perché servono strumenti più adeguati rispetto ai tempi e al problema dell’occupazione giovanile». Anche Corrado Passera, ad di Intesa Sanpaolo, ritiene che l’intesa di UniCredit sia positiva e che il prossimo contratto nazionale dovrà «lasciare più spazio ad accordi aziendali». Le trattative sul rinnovo del contratto nazionale, insomma, sembrano destinate a partire in salita.