Varie, 19 ottobre 2010
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VidalNaquet Pierre
• Parigi (Francia) 23 luglio 1930, Nizza (Francia) 29 luglio 2006. Storico • «Ebreo, storico, militante. Quando parlava di se stesso e del suo lavoro, Pierre Vidal-Naquet sottolineava sempre con forza questi tre indissolubili aspetti della sua identità di intellettuale. Aveva portato nel mestiere di storico la passione di militante politico, aveva portato nella militanza politica il rigore dello storico di vaglia, aveva sempre reso trasparenti le sue posizioni, ostentando volutamente una biografia segnata dalla deportazione e dalla morte dei suoi genitori ad Auschwitz, dalla sua precocissima partecipazione alla Resistenza contro i tedeschi nella Francia occupata, a soli 14 anni [...] rivendicando la realtà di un ebraismo forgiatosi non tanto nella sua dimensione religiosa quando direttamente nel grido civile di “mai più la Shoah!” [...] era un “antichista”. Era stato direttore di ricerca all’École des Hautes Etudes en Sciences Sociales dal 1969 al 1990, anno in cui sostituì Jean-Pierre Vernant nella direzione del Centre Louis Gernet di studi comparati sulle società antiche. E proprio insieme a Jean-Pierre Vernant ha pubblicato i due volumi Mito e tragedia nell’antica Grecia , tradotti in Italia da Einaudi. Altri libri conosciuti da noi sui temi dell’antica Grecia erano La democrazia greca nell’immaginario dei moderni (Il Saggiatore 1996), Il mondo di Omero (Donzelli 2001). Ma la definizione di “antichista” gli stava stretta; innanzitutto perché la portata metodologica delle sue riflessioni sulla ricerca e sulle fonti - Gli assassini della memoria (Editori Riuniti 1993), e Lo specchio infranto (Donzelli 2002)- avevano una portata amplissima, che interessava tutti gli storici, compresi i “contemporaneisti”, sempre molto attenti alle sue considerazioni epistemologiche, ma soprattutto perché il suo impegno militante lo aveva portato a cimentarsi su tutti i temi che hanno imperversato nella grande arena dell’“uso pubblico della storia”, in Francia come in Italia. Denunciò le torture eseguite dai parà durante la guerra di Algeria, si schierò contro la dittatura dei colonnelli in Grecia; quando su quegli eventi si è tornati, non più per la riflessione storica ma per le memorie che ne scaturivano, Vidal naquet si è sempre opposto a una dimensione riconciliatoria e unanimistica, ribadendo le ragioni della storia contro quelle della memoria. Nella battaglia contro i negazionisti usò tutto il peso del suo rigore filologico, attaccandoli sul terreno strategico della critica delle fonti, smascherandone i falsi e le manipolazioni. Nella sua ultima polemica contro Irving, Vidal-Naquet parlò del “disonore di falsificare una materia che si conosce”. Fu un giudizio inappellabile, una sentenza contro Irving più esemplarmente fondata di quella emessa da qualsiasi tribunale» (Giovanni De Luna, “La Stampa” 31/7/2006) • «[...] è stato una figura centrale della cultura francese, ed ha influenzato non poco la cultura italiana. Uomo generoso e limpido, dalle amicizie granitiche, ha rivestito come pochi il ruolo che spesso gli intellettuali disertano: l’impegno civile disgiunto dall’ambizione personale. In lui l’impegno si nutriva, invece, di ricerca storica. Ad Auschwitz aveva perso entrambi i genitori. Nel 1956, appena venticinquenne, cominciò ad insegnare Storia antica a Caen. Il governo gollista lo sospese dall’insegnamento, nel 1960, perché aveva firmato il “manifesto dei 121” sul diritto all’insubordinazione. De Gaulle era al potere da due anni, portatovi dal putsch di Algeri (13 maggio 1958). Era in atto in Algeria la guerra dei torturatori, dei paras del colonnello Massu e di Thomazo “naso di cuoio”, quella che ancora oggi ci agghiaccia nella Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo. Nel 1957 Maurice Audin, uno scienziato francese ostile alla guerra coloniale, era morto sotto tortura. Era sorto il “Comitato Maurice Audin” e Vidal-Naquet fu uno dei fondatori. La Francia, che già aveva rimosso Vichy, ha poi rimosso anche queste vergogne. Eppure non si dovrà dimenticare che in quegli anni essa diffondeva in Occidente germi di fascismo: gli uomini dell’Oas agivano indisturbati in Spagna e Portogallo, e allo Stato di tortura in colonia corrispondeva la deriva antidemocratica sul territorio metropolitano a colpi di leggi “maggioritarie” e di presidenzialismo. Accadde allora che Henri Alleg, giornalista dell’Humanité, patisse anche lui la tortura nonostante il suo ruolo. E tuttavia sopravvisse e denunciò la “cancrena”, come allora fu chiamata, che divorava la Francia, con un celebre libretto, La question, che fece epoca. A quella vergognosa guerra coloniale Vidal-Naquet ha dedicato molti libri memorabili: L’affaire Audin (1958), La raison d’Etat (1962), tradotto da Laterza col titolo Lo Stato di tortura, La torture dans la République, 1972), Les crimes de l’armée française en Algérie (1975, ristampa 2001), Face à la raison d’Etat (1989). Nel 1968 Vidal-Naquet, ormai a Parigi come agrégé d’histoire all’Ecole Pratique des Hautes Etudes, fu tra i non molti esponenti della cultura universitaria (e con lui Vernant, compagno di tante battaglie) a comprendere le ragioni del maggio ’68: un movimento che ebbe anche il merito di chiudere l’era de Gaulle. Con Alain Schnapp, allora giovane archeologo [...] Vidal-Naquet raccolse (1969) una imponente documentazione storica sul “maggio”: Journal de la Commune étudiante (volume che Seuil ha ristampato nel 1988). Fu un bell’esempio di storia vivente, tucidideo. Dal 1969 divenne direttore di ricerca all’École des Hautes Etudes en Sciences Sociales. Ma la tempesta politica e culturale che ha mobilitato Pierre negli ultimi decenni è stata la lotta contro coloro che egli ha bollato per sempre come gli “assassini della memoria”: i negazionisti, Faurisson in testa, dell’esistenza stessa delle camere a gas. Un Eichmann di carta si chiamava il saggio del 1980; La memoria di Auschwitz usciva nello stesso anno su Esprit. Ormai il problema era politico e storiografico insieme. Si toccava con mano che si può assassinare la memoria, che i fatti storici possono scomparire. Venivano mobilitati così non soltanto la coscienza civile, non soltanto la memoria individuale, ma soprattutto il mestiere di storico. Storico della Grecia egli è stato sempre, per tutta la vita: dal libro scritto con Lévêque su Clistene, innovativo ripensamento della genesi della democrazia ateniese, a Economia e società nella Grecia antica, apparso in Italia presso Boringhieri, per non parlare della storia dell’immagine di Atene democratica nel tempo (La democrazia ateniese vista dall’esterno), il cui nucleo era già nell’importante introduzione a Finley, Democrazia degli antichi e dei moderni. È da quegli studi che discende il Cacciatore nero [...] libro di straordinario fascino, anche narrativo, sul tema, cruciale nelle società arcaiche, della “iniziazione”, della entrata nella comunità. Ma la ferita riapertasi con l’azione nefasta dei revisionisti assassini della memoria ha riportato Pierre non soltanto a combattere in difesa della verità contro un relativismo che assolve e vanifica, ma anche ha riproposto alla sua mente di storico la millenaria vicenda dell’ebraismo: dal mirabile saggio su Giuseppe Flavio (Del buon uso del tradimento) a Gli Ebrei, la memoria, il presente, entrambi editi in Italia dagli Editori Riuniti, al rinnovato studio sull’Affaire Dreyfus. Negli ultimi anni Pierre, tormentato nel fisico da malanni insidiosi, ha sentito l’urgenza di raccontarsi. Ne sono nati libri come La scelta dello storico: perché ho scelto il mestiere di storico (2004) e i volumi di Mémoires, pubblicati a partire dal 1995. È stata una scelta benefica: una lezione di laicità e di militanza» (Luciano Canfora, “Corriere della Sera” 31/7/2006) • «[...] era nato nel 1930, l’anno in cui la storiografia del Novecento ha avuto una svolta di grande rilievo. Erano da poco apparse le Annales di Marc Bloch e Lucien Febvre. Si affiancava questa novità - diventerà poi una scuola - ai mutamenti interpretativi e di linguaggio avvenuti dopo la prima guerra mondiale grazie a opere come L´Autunno del Medioevo (1919) di un solitario innovatore come Joahn Huizinga. Penso che per uno storico della classicità e del mondo antico - in particolare la “società” greca, la sua democrazia - quale fu Vidal-Naquet, le idee di Bloch e di Huizinga siano state fondamentali: erano anche uomini dalla forte passionalità politica che al mestiere dello storico assegnavano l’obbligo morale della contemporaneità il che significò per Bloch la fucilazione per mano nazista nel 1944 e per Huizinga la malinconia e la morte nel 1943 nel domicilio coatto impostogli dai tedeschi in Olanda. Anche Vidal-Naquet (aveva perso i genitori a Auschwitz) rischiò se non la vita l’emarginazione dall’attività universitaria per essersi opposto fermamente alla repressione del movimento di liberazione algerino e alle illegalità compiute dalla destra colonialista francese sui combattenti algerini. Sulla scia di questa contemporaneità della storia, Vidal-Naquet si gettò con impeto nella “lettura” degli accadimenti di Francia, a cominciare dal maggio 1968. Vidal-Naquet aveva messo le sue esperienze al servizio di una idea storiografica che è la pietra di paragone della più autorevole storiografia occidentale del Novecento. Cosa è la democrazia nell’età moderna; cosa è stata nella classicità? Un problema filosofico, una ragione di Stato, una necessità sociale, o l’unico ordine possibile in una realtà umana che la storia trasforma, arricchisce, modella e difende costantemente dai nemici e dai negatori della sua verità essenziale? I lettori italiani conoscono, in proposito quelle ricerche di Vidal-Naquet (ad esempio Economia e società nella Grecia Antica) dove l’interesse per la germinazione della democrazia ateniese si congiunge al metodo di entrare sempre nel regno degli elementi oggettivi e fecondativi degli uomini in cerca di comunità. L’esperienza storica della prima metà del Novecento (le due guerre mondiali, i fascismi, i genocidi, gli stermini ideologici) apparivano a Vidal-Naquet il ribaltamento violento e incolto della ricerca sulle delicate origini della civilizzazione. Il suo Cacciatore nero [...] opera appunto sulle origini arcaiche della società, può essere la lettura in trasparenza del degrado della modernità avvenuto in pieno secolo XX a cominciare dall’affare Dreyfus, per Vidal-Naquet il segno di una patologia della politica che porterà alle camere a gas. Essere storici con questa visione ferma, plurale, dalla cronologia “aperta” nello stesso tempo verso il passato e verso il futuro non è una condizione esistenziale tra le più facili. Arriva il momento dei bilanci, come accaduto a molti nel secolo appena trascorso. Bloch, Huizinga, altri storici della storia come contemporaneità: Carr, Chabod, Momigliano, Braudel, Spini (l’elenco non è lungo) hanno sentito il dovere a un certo punto di pensare se stessi e dare conto, con libri di memorie e con riflessioni analitiche del loro lavoro. Dalla critica del mondo alla critica di se stessi: Vidal-Naquet non si è sottratto a questo dialogo interiore. L’ultima sua opera, del 2004, ha per titolo Perché ho scelto il mestiere dello storico» (Lucio Villari, “la Repubblica” 1/8/2006) • «[...] rara figura di studioso che seppe dare un senso civile al proprio lavoro [...] sommava la capacità del ricercatore alla passione di un testimone del tempo, coinvolto come vittima sia pur indiretta della Shoah [...] sua madre, Marguerite [...] finita nei forni di Auschwitz nel 1944, a 35 anni. Anche suo padre, ebreo laico e militante comunista, fu strappato alla vita dai nazisti, torturato, prima di essere ucciso. Solo negli anni 60 Pierre, partecipe di tutte le battaglie civili del suo tempo, in difesa della libertà e della verità (dalla guerra d’Algeria al colpo di Stato dei colonnelli greci), prese coscienza della questione ebraica. Senza abbandonare il campo specifico di ricerca (l’antichità), cominciò a occuparsi dello sterminio di un popolo a cui egli fino ad allora non si era sentito particolarmente legato. Si imbatté quindi nelle correnti “revisionistiche” (ossia “negazioniste”), che provavano a revocare in dubbio la volontà genocidaria del nazismo, e la stessa esistenza di un apparato tecnico-industriale per realizzare la “soluzione finale” della Judenfrage, il “fastidioso” problema della presenza ebraica. Certo, le vittime non furono solo gli ebrei, ma zingari, prigionieri russi, slavi, minorati ecc. Tuttavia, avendo i negazionisti concentrato il loro zelo nel “dimostrare l’impostura delle camere a gas”, soltanto in relazione agli ebrei, egli si convinse che dietro l’operazione stava il riaffiorare dell’antisemitismo e una rivalutazione dell’hitlerismo. Fu così che si fece ebreo “per volontà” e “per riflessione”. E si dedicò a smontare le “argomentazioni” dei negazionisti. La sua fu un’operazione “di metodologia storica”, volta a smascherare le pratiche degli “assassini della memoria”, gli “Eichmann di carta”, i quali, con argomenti sofistici (non certo sofisticati), pretendevano dimostrare che le camere a gas erano solo una “diceria” [...] Eppure criticò, e duramente, le politiche di Israele, denunciando “l’uso politico della Shoah” e la “tentazione sudafricana” che è “al cuore dell’ideologia sionista”, ponendosi nella difficile condizione di chi ha la volontà di capire e dire la verità, a qualunque costo. Il che gli attirò l’ostilità di larga parte del mondo israeliano, benché affermasse che gli era “insopportabile” l’idea della cancellazione dello Stato di Israele; soggiungendo, con l’attitudine di chi parteggia non per un partito, una nazione, un’etnia, bensì per il principio della verità: “ma l’idea di uno Stato ebraico dove l’esercito ordina di sparare contro i bambini, apre il fuoco in una moschea, è forse sopportabile?”. [...]» (Angelo D’Ors, “La Stampa” 29/1/2009).