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 2010  ottobre 19 Martedì calendario

Quanto vale l’argenteria di stato - Erano le parole d’ordine degli Anni Novanta, quando l’Italia, Cenerentola d’Europa, voleva entrare nell’euro

Quanto vale l’argenteria di stato - Erano le parole d’ordine degli Anni Novanta, quando l’Italia, Cenerentola d’Europa, voleva entrare nell’euro. Erano i tempi in cui c’era bisogno di fare cassa rinunciando in fretta ad un po’ di argenteria: vendere, privatizzare, cartolarizzare. Poi sono arrivati il nuovo secolo, la stabilità finanziaria e di mettere a reddito il patrimonio dello Stato non se n’è parlato più. I postumi delle crisi finanziarie e il nuovo, severo, Patto di stabilità europeo, ci costringe quantomeno a pensarci di nuovo: si può rimettere qualche altro gioiello in vetrina? Quanti ce ne sono nell’inventario dello Stato? Farlo ci può davvero aiutare ad abbattere l’enorme mole di debito pubblico che pende sulla nostra testa? A giudicare dall’assegno da 4,5 miliardi che, secondo la Consip, lo Stato stacca ogni anno per pagare le bollette della luce, la risposta è certamente sì. Eppure quanto valga effettivamente il patrimonio dello Stato non lo sanno con esattezza nemmeno al ministero del Tesoro. Una stima di qualche anno fa - era il 2004 - sentenziò che l’intero «attivo patrimoniale dello Stato» valeva più o meno quanto l’attuale debito pubblico: 1.800 miliardi di euro. Si trattava però di una stima molto sommaria, che comprendeva beni come il Colosseo, gli Uffizi e gli scavi di Pompei. Ora al Tesoro ci si sono messi con pazienza certosina: all’inizio di quest’anno hanno chiesto a uffici pubblici, enti locali, Asl e da settembre anche alle società partecipate di comunicare il valore dei propri asset. I numeri, questa volta precisi, saranno resi noti il primo febbraio. In realtà, un po’ di numeri attendibili su quanto valga ad esempio Casa Italia esistono già. L’Agenzia del Demanio stima che il valore complessivo degli immobili statali oscilli attorno ai 78 miliardi di euro. Difficile dire quanti di questi potrebbero essere ceduti: per due terzi si tratta di uffici di ministeri, enti, sportelli e università. Di certo gli enti previdenziali pubblici potrebbero rinunciare a parte degli oltre sei miliardi di beni. E fa riflettere il dato secondo il quale, nonostante la mole di spazi a disposizione, lo Stato spende ogni anno almeno un miliardo di euro in affitti. La sola abolizione di questa voce, alla quale aggiungere costi di pulizia e vigilanza, vale risparmi annui per un paio di miliardi. Per questo, finito il censimento, al Tesoro inizierà un’operazione di razionalizzazione degli immobili pubblici simile a quella varata qualche anno fa dal governo tedesco. Spazi per un’operazione più cospicua sul patrimonio immobiliare è possibile invece negli enti locali. Secondo la stima fatta dalla Fondazione Magna Carta e dall’Istituto Bruno Leoni - considerata fin troppo prudente da molti esperti - sparsi per l’Italia ci sono almeno 330 miliardi di euro di immobili così suddivisi: 227 dei Comuni, 29 delle Province, 11 delle Regioni ai quali vanno aggiunti i 25 miliardi degli ospedali. C’è poi l’enorme patrimonio di edilizia pubblica per il quale Renato Brunetta - scontrandosi con il niet di Giulio Tremonti - aveva immaginato un grande piano di dimissioni: la stima più bassa parla di 50 miliardi di euro, ma il suo valore reale sarebbe vicino ai 150. Se a questi numeri aggiungiamo i tre miliardi di caserme, fari e depositi trasferiti con il federalismo demaniale e le partecipazioni di molti Comuni in società pubbliche locali, si capisce perché il ministro dell’Economia insista nel chiedere a sindaci e governatori di stringere la cinghia. L’altra grande voce dell’attivo patrimoniale dello Stato sono le società pubbliche. Secondo l’Anci le partecipazioni tuttora in capo al ministero del Tesoro varrebbero circa 140 miliardi, poco più dei 137 incassati dallo Stato fra il 1990 e il 2006. Ad alcune di queste partecipazioni lo Stato difficilmente verrebbe meno; ad esempio al 30% di Eni, Enel e Finmeccanica, considerate aziende in settori strategici. In altri casi lo Stato è stato vicino a rinunciarvi salvo poi fare marcia indietro: accadde con l’ultimo governo Prodi per Fincantieri, la cui quotazione in borsa del 50% avrebbe fruttato almeno 500 milioni di euro. Ed accadde per la vendita di metà delle quote di Rai Way, la società che gestisce la rete di trasmissione della televisione pubblica, un’operazione che avrebbe fruttato da sola un miliardo di euro. Insomma, per restare nella metafora, Casa Italia non ha più le ricchezze di un tempo. Qua e là, nella gestione del patrimonio di famiglia si può però risparmiare molto. E in cassaforte ci sono ancora molti titoli di valore: ieri su questo giornale Luca Ricolfi ipotizzava un patrimonio collocabile pari ad almeno 400 miliardi di euro. Il programma del Pdl stimò 700 miliardi di beni «da collocare e valorizzare sul mercato» fra «azioni, aziende, immobili, crediti, diritti di concessione». In quest’ultimo caso significherebbe abbattere il 40% del debito pubblico: una missione pressoché irrealizzabile in pochi mesi. Se non altro perché a due anni e mezzo dall’inizio della legislatura il governo sta pensando ora alla prima mossa: la cessione delle frequenze del digitale terrestre, un’operazione che potrebbe portare in cassa fra i tre e i quattro miliardi. Non servirà però ad abbattere il debito pubblico, bensì a finanziare la riforma dell’Università e le missioni italiane all’estero.