Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  ottobre 18 Lunedì calendario

Bertinotti e i quarantamila - All’epoca fu, insieme a Claudio Sabattini, il più deciso, diciamo anche il più duro nello scontro alla Fiat, quello dei 35 giorni di trent’anni fa

Bertinotti e i quarantamila - All’epoca fu, insieme a Claudio Sabattini, il più deciso, diciamo anche il più duro nello scontro alla Fiat, quello dei 35 giorni di trent’anni fa. Oggi che si rievoca quel conflitto, finito con la sconfitta degli operai che occuparono Mirafiori e di coloro che li appoggiavano, Fausto Bertinotti ha qualcosa da dire in proposito. Parla a chi stava dall’altra parte, ossia quelli che venivano chiamati «padroni», ma soprattutto ai suoi compagni di allora, come Piero Fassino che era nel gruppo dirigente del Pci torinese e che in un’intervista al nostro giornale di pochi giorni fa ha dato una interpretazione sul comizio che il leader del Pci Enrico Berlinguer fece davanti ai cancelli della Fiat. Ossia che il Pci sarebbe, sì, stato sempre accanto ai lavoratori, ma anche che «le forme di lotta bisogna deciderle tutti insieme col sindacato». Lei, Bertinotti, che era il segretario regionale della Cgil, ha lo stesso ricordo di Fassino? «Prima vorrei sottolineare l’onestà intellettuale di chi stava dall’altra parte. Di Cesare Annibaldi, per esempio, che in un’intervista su queste pagine racconta la vicenda esattamente come si è svolta, riconoscendo le nostre ragioni con un’umanità che mi ha favorevolmente impressionato. Non a caso ha detto che dopo la lotta lui divenne amico di Claudio Sabattini proprio perché subì la sorte di capro espiatorio. Tutt’altra storia rispetto a quella che racconta Fassino: Claudio pagò la sua “colpa” con molti anni di esilio politico. Una punizione che tentarono anche di infliggere a me ma senza riuscirci per fortuna. Il Pci e la Cgil non erano così democratici e pluralisti come ricorda Piero, punivano, radiavano, cacciavano i dirigenti ai margini delle organizzazioni. Ma voglio sottolineare anche l’onestà di Cesare Romiti, che pur nella sua durezza riconosce il senso di quel conflitto e la dignità della sua controparte». Fassino invece? «Lui fa un’operazione puramente ideologica, ossia modifica quella storia in base alla sua ideologia attuale. Sostenere che il Pci era un partito riformista, dando a questo concetto quello che gli si dà oggi, è un falso storico. Il Pci, nonostante le sue divisioni interne, restò sempre legato al conflitto di classe. Non si piegò mai alle ragioni dell’impresa, né dal punto di vista politico né da quello culturale». Ma quella frase di Berlinguer? «Quella frase non ha alcuna importanza, basta ricordarsi la storia politica di quel periodo, col Pci che aveva rotto il governo di unità nazionale e col suo leader che aveva deciso di ricominciare dalla sua base sociale, ossia gli operai. Sfidando anche forti dissensi nel gruppo dirigente, tanto che Tonino Tatò, che era il suo segretario particolare, proprio quel giorno a Torino mi disse: “La venuta di Enrico è stata molto combattuta in segreteria”. Però, nonostante quelli che allora venivano chiamati miglioristi, e cito per tutti il compagno Gerardo Chiaromonte, Berlinguer venne a Torino e disse agli operai che il partito sarebbe stato al loro fianco. Lo disse e soprattutto lo fece. Citò Solidarnosc, invitando il sindacato a fare come a Danzica un mese prima, trattative in piazza in modo che gli operai potessero parteciparvi. Era un invito e insieme una critica al sindacato: più democrazia diretta. Insomma il Pci di Berlinguer non solo diceva che era accanto agli operai, ma lo dimostrava con i fatti: e i fatti contano più delle frasi, dette o non dette». Col senno di poi, lei rifarebbe tutto? «Tutto. Le battaglie non si rinnegano solo perché si sono perdute. Io penso che senza il valore del No, cioè dell’opposizione, non sarebbero esistite le lotte di emancipazione. Ieri come oggi». Lei ha avuto come controparte Romiti. Chi pensa sia più duro tra lui e Marchionne? «Con il primo si lotta, si tratta e si può anche perdere. Col secondo, quello di Pomigliano, e non il primo Marchionne, l’uomo del discorso all’Unione industriali che avevo molto apprezzato, si può solo accettare o rifiutare il diktat». Saltando in avanti di trent’anni, vede analogie tra quella lotta di allora e la battaglia della Fiom di oggi? «Ce ne sono parecchie di analogie, nel metodo e nel merito, ma voglio citare solo quella negativa. Mentre allora tutta la sinistra e tutto il sindacato erano schierati a fianco degli operai, oggi non è così. Perché il Pd non è sceso in piazza con la Fiom mentre qualsiasi partito socialdemocratico o laburista europeo lo avrebbe fatto, come fanno i socialisti francesi? Perché nell’eredità del Pd ci sono enormi nodi ancora irrisolti, tanto che esso rifiuta una collocazione socialista senza però averne trovata un’altra altrettanto credibile. Semplificando, direi che se oggi non sei in grado di schierarti con la battaglia della Fiom, non sei nemmeno nelle condizioni per cominciare un qualsiasi discorso di sinistra». A proposito, lei è d’accordo con la proposta di sciopero generale lanciata sabato in piazza a Roma? «Lo sciopero generale è irrinviabile».