MARCO ZATTERIN, La Stampa 17/10/2010, pagina 25, 17 ottobre 2010
Sassofono un assolo per gli occhi - Chiunque ascolti musica su questo pianeta - e non importa quale musica ascolti, basta che ascolti una musica, che sia rock o jazz o blues o pop o rap o funky o metal o techno o quello che volete, tolta la classica, o forse anche no - insomma, qualsiasi ascoltatore di qualsiasi musica, ogni mattina dovrebbe rivolgere un pensiero riconoscente al signor Adolphe Sax, per essere vissuto, e mentre viveva avere inventato il saxofono
Sassofono un assolo per gli occhi - Chiunque ascolti musica su questo pianeta - e non importa quale musica ascolti, basta che ascolti una musica, che sia rock o jazz o blues o pop o rap o funky o metal o techno o quello che volete, tolta la classica, o forse anche no - insomma, qualsiasi ascoltatore di qualsiasi musica, ogni mattina dovrebbe rivolgere un pensiero riconoscente al signor Adolphe Sax, per essere vissuto, e mentre viveva avere inventato il saxofono. Perché il saxofono - o sassofono, se preferite: io lo chiamo sassofono, però qui è giusto rendere omaggio al signor Sax - be’, il saxofono è stato il primo strumento moderno. E dunque è alla radice di tutte le musiche moderne. Già questo è un buon motivo per ringraziare il signor Adolphe Sax. Ma ancor più dobbiamo essere riconoscenti al signor Sax perché senza il saxofono non ci sarebbe mai stato Charlie Parker. Voglio dire: è probabile che mamma Parker avrebbe comunque messo al mondo Charles. Però, senza il saxofono (che d’ora in poi possiamo amichevolmente chiamare sax) Charles Parker non sarebbe mai diventato Charlie «Bird» Parker, e di conseguenza non avrebbe potuto cambiare la storia della musica. Quindi la musica che oggi ascoltiamo sarebbe stata completamente diversa, e molto più brutta. Se la tesi vi pare un po’ ardita, dovreste come minimo convenire che senza il sax e «Bird» non ci sarebbe stato il bebop, e già l’umanità ci avrebbe rimesso parecchio. Se poi giudicaste eccessiva anche questa ragionevole affermazione, non potrete non ammettere che senza il sax e «Bird» non ci sarebbero mai stati gli assoli di «Bird» al sax. E pure in quest’ultima ipotesi, estremamente riduttiva, vi assicuro che il mondo sarebbe comunque molto peggiore. Adolphe Sax è ancora qui, nella via che ora porta il suo nome, seduto su una panchina davanti al numero 37 dove è nato quasi due secoli fa. Ha un aspetto severo che ricorda Giuseppe Verdi, se non fosse per lo strumento che stringe in grembo come fosse un figlio. Il sassofono fuso nel metallo pesante rende meno grave la figura, al fianco della quale si siedono rapidi i pochi turisti che sfidano la pioggia sottile dell’autunno belga che sembra già quasi inverno. Una foto abbracciati alla venerata statua scura, tutti magari intenti a chiedersi come sia stato possibile che quel signore con la barba nato a Dinant, all’ombra della cittadella che difendeva il ponte sulla Mosa, sia riuscito a modellare con uno degli ottoni più rivoluzionari in cui uomo abbia mai soffiato. «Non suonarlo, lascia che sia lui a suonare te», amava ripetere il jazzista americano Charlie Parker, apostolo del culto del sassofono. A suo modo, e non senza falsa modestia dato il talento sregolato dell’uomo, la frase di «Bird» riproduceva la teoria elaborata intorno ai trent’anni da Antoine-Joseph Sax, detto Adolphe: «Il timbro di un suono sia determinato dalle proporzioni della colonna d’aria piuttosto che dal materiale del corpo che la contiene». Era figlio d’arte, sin da ragazzo aveva lavorato nella bottega del padre, gran progettista di clarinetti e fagotti. Nel 1840, a 26 anni, concepì un concetto ibrido sposando l’ancia del clarino, le chiavi dell’oboe e del flauto, e il cono di metallo. Gli parve straordinario e gli diede il suo nome. Saxophone! Centosettanta anni più tardi il Belgio ha deciso di celebrarlo come si deve. C’è orgoglio nell’evento, ma non si può fare a meno di pensare che anche il senso di colpa giochi un ruolo nella grande festa annunciata in memoria di Monsieur Sax. Il geniale Adolphe visse poco a Dinant, aveva meno di un anno quando nel 1815 Guglielmo I d’Orange lo fece trasferire a Bruxelles, designandolo quale fornitore ufficiale di strumenti per l’esercito. Fu nella capitale belga che Adolphe immaginò le sue creature sonore. Eppure il successo arrivò solo a Parigi, dove si trasferì nel 1842 e morì nel 1894, povero in canna dopo una lunga serie di costose dispute per difendere il suo modello registrato. In riva alla Senna il sassofono decollò verso gloria. Sax brevettò una famiglia di quattordici versioni diverse e l’incontro col compositore francese Hector Berlioz gli regalò la popolarità che cercava. Adottato dalle orchestre e poi dalla bande militari, lo strumento è diventato indispensabile col jazz nel secondo dopoguerra ed è rinato col rock. Oggi anima un universo che spazia da Parker a Bill Clinton, passando per Wayne Shorter (Weather Report), Fausto Papetti (trash italico anni settanta) e Zoot, il sassofonista coi capelli in genere blu del Muppet show. Mica poco. E’ anche per questo che la piccola Dinant - «Città della Musica» - prova a riappropriarsi del suo figlio, organizzando di concerti ed eventi (Europ’A. Sax, 1-13 novembre) e inaugurando nella giornata finale il museo della «Maison Sax», nella quale il nostro eroe non ha veramente vissuto o lavorato. Non un dettaglio, sebbene l’ambiente sia intrigante e composito. L’edificio è stato svuotato e ripensato. Sulla strada sette alti totem sassofonici in altrettante tonalità, dal contrabbasso al sopranino. Il piano terra è angusto, le luci soffuse. Sul pavimento l’architetto ha disegnato un sax di otto metri. Tre stanze in tutto, foto, progetti, brevetti, strumenti dalle fogge che il profano troverà impensabili. In fondo quattro grandi pagine mobili dal quaderno dell’inventore. Suoni e suggestioni moderne incastrate nel passato. Poco? Intanto, è gratis. E poi è la chiave di un percorso armonioso che conduce alla vicina Maison della Pataphonie, dove gli strumenti si possono suonare davvero. Il severo Adolphe potrebbe trovar il tutto divertente. Era un uomo di spirito, si racconta, come il suo strumento. Certo gli sarebbe piaciuta la scusa con cui Jack Lemmon in versione Dafne cerca di smarcarsi dall’appiccicoso Osgood in «A qualcuno piace caldo». «Ho un passato terribile - dice - ho vissuto per tre anni con un sassofonista». Forse pensava a Parker morto di vizi. Oppure al suono di uno strumento che, come pochi altri, cambia le vite senza possibilità di ritorno. Sax, potendo, avrebbe sottoscritto entrambe le versioni.