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 2010  ottobre 17 Domenica calendario

Intanto Allah è arrivato al polo nord - Finalmente Allah è arrivato al Polo Nord. Guardi là sul ponte di quel barcone: ecco la sua casa, una moschea bellissima, tutta color crema, con la sua madrassa

Intanto Allah è arrivato al polo nord - Finalmente Allah è arrivato al Polo Nord. Guardi là sul ponte di quel barcone: ecco la sua casa, una moschea bellissima, tutta color crema, con la sua madrassa. Adesso la caleremo a terra e la porteremo laggiù: un luogo degno, lo abbiamo preparato da mesi, da quando l’abbiamo acquistato per 100 mila dollari. Basta pregare nel nostro sacro tugurio privo di luce dove si entra dieci alla volta. Ora il nostro Dio avrà vera gloria. E noi con Lui, tutti insieme». Amir Suliman, uno dei cento musulmani originari di Sudan, Egitto e Libano da tempo stabilitisi a Inuvik - tra i geli infiniti del Canada degli Inuit affacciati sul mare di Beaufort - un mese fa era lì ad osservare commosso la chiatta giunta in città sulle ultime lingue d’acqua del Mackenzie prima che il freddo artico trasformasse il delta più grande del mondo in una sterminata ragnatela di ghiaccio. Ma a non perdersi un particolare dello sbarco sembrava esserci anche «Our Lady of Victory», l’incantevole Chiesa Igloo, cattolica, che da subito è diventata il simbolo e l’immagine stessa di Inuvik nel mondo. La sua storia - esattamente come quella della moschea - è una sorta di racconto eroico piuttosto comune a queste latitudini dove la temperatura vaga tra sonnacchiosi soli di mezzanotte e opalescenti aurore boreali, tra umide calure estive e lunghissimi inverni all’addiaccio dei meno 50. La storia di questa zona che vive fra i ghiacci la racconta una giovane Gwich che con le sue due compagne - una, pura inuit, l’altra bianca del Klondike - ha lo sguardo acceso d’orgoglio: «All’inizio il capoluogo dei Northwest Territories era Aklavik, piccolo centro di scambi adagiato in una piana paludosa disseminata di “muskeg”, gli acquitrini che appaiono e svaniscono a seconda delle precipitazioni. Negli anni ’50 le prospezioni rivelarono che la terra nascondeva enormi tesori: petrolio, gas e oro. Così cominciò la corsa alla ricchezza e presto Aklavik non fu più in grado di contenere quelli che sciamavano fin quassù. Fu allora che si decise di fondare una nuova città. In una tundra asciutta, non lontana dai territori inuit e da quelli degli indiani Dene che, con i Gwich, sono i veri aborigeni boreali». «Il problema più grande – spiega la giovane Gwich - erano i ghiacci. Così fu escogitato un sistema di ancoraggio nel permafrost per gli edifici, montandoli tutti su palafitte più o meno alte e imbottendole di lana di vetro, prima di ricoprire lo strato più esterno di legno o cemento. Poi si disegnarono linee quasi aeree per fogne, condutture dell’acqua e riscaldamento. Unico motore: la forza di gravità. Venne tracciata la strada principale, la Mackenzie street, e su questa piazzarono il municipio, la Chiesa Igloo, il primo hotel, il primo ristorante e i primi negozi. Poi la fecero intersecare con 21 strade unite da altrettante parallele in modo da occupare l’intero spazio tra il braccio del fiume e la collina retrostante. A quel punto il nome della città era già stato trovato: Inuvik che, in lingua inuit, significa: il posto dell’uomo. In breve comparvero le Giubbe Rosse a cavallo che stabilirono il loro quartier generale del Nord e i servizi segreti per intercettare i russi della Guerra fredda. E poi gli scienziati a far esperimenti sul clima. Ormai eravamo diventati una vera capitale: oggi siamo quasi in 4 mila». Vagare in città regala ancora adesso un continuo senso di conquista. Le strade chiazzate di neve, le passerelle che uniscono un isolato all’altro, i cantieri che impacchettano di isolanti ogni muro tirato su, il grande acquedotto. E poi i cortili inzaccherati dove sonnecchiano enormi pick-up e miriadi di motoslitte pronte per qualsiasi tempo il cielo decida di mandare giù. Tutto dà il senso dell’eroismo della frontiera. Esattamente come l’antica Dawson City, Yukon, dove solo la Main street è asfaltata e si sguazza ovunque nello stesso fango degli antichi cercatori d’oro. Ed è proprio da Dawson che parte la Dempster Highway, 750 spericolati chilometri tra caribù, volpi argentate e sterminati voli d’uccello: due minuscole corsie in scisto argilloso adagiato su uno spessissimo strato di ghiaia che muore all’ingresso di Inuvik. Ma che è anche l’unica via di collegamento per parte dell’anno con il resto del creato. E che perde la sua funzione appena gela il Mackenzie che subito si trasforma nell’autostrada invernale percorsa soltanto da immensi convogli speciali di camion e autobotti. Però la sorpresa più inattesa è imbattersi nella Greenhouse, la Casa del verde. Un gigantesco capannone dove vengono seminate, cresciute, coccolate in piccoli vasi da nursery tutte le piante e i fiori dell’universo. È un inno alla vita, una sorta di reparto di natalità intensiva dove tutti gli abitanti vengono ad adottare i loro piccoli virgulti per allontanare da casa ogni accenno di quella tristezza artica così immanente al di là di ogni finestra. Assicurano le ragazze: «Questo è il nostro luogo magico, quello che ci tiene uniti al di là delle razze e delle religioni. È fatale: qui ci incontriamo tutti, ci parliamo, ci conosciamo, si accende il calore e, tra foglie e petali, è inevitabile che anche gli eventuali dissapori tendano ad assopirsi». Così anche l’approdo di una moschea è già diventato ricordo comune, un’altra di quelle affascinanti storie di frontiera da raccontare ai figli. Il motore di tutto è stato un tal Khasti, medico-giornalista canadese di origini saudite, che si è messo in caccia di donazioni fino a raggiungere i 750 mila dollari necessari. La costruzione è cominciata ad aprile a quattromila chilometri di distanza. Poi è venuta la parte complicata: il trasporto. Partenza da Winnipeg (Manitoba) a bordo di un gigantesco camion modificato, ormeggio sul Grande Lago degli Schiavi, trasbordo sulla chiatta e navigazione fino a Inuvik . Ora non c’è altro da fare che attendere il giorno per l’inaugurazione ufficiale: il primo novembre di tutti i santi cristiani realizzerà infatti il sogno di un pugno di musulmani artici di aprire le porte della casa di Allah.