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 2010  ottobre 17 Domenica calendario

DON PEPPINO PROFETA DI GOMORRA

Don Peppino Diana venne uc­ciso dalla camorra all’alba del 19 marzo 1994, festa di San Giuseppe, nella sagrestia della sua parrocchia in Casal di Principe. Il li­bro che mettemmo insieme per ri­cordarlo, Per amore del mio popolo,
vide la luce a dicembre dello stesso anno, quando del suo sacrificio si parlava poco o pochissimo, e nell’a­versano si erano messe in giro voci inquietanti sulle cause della sua mor­te che tendevano a sminuirne la gra­vità riducendole a fatto privato. Non ricordo se fu poco tempo prima o po­co tempo dopo che mi trovai a pas­sare in macchina da Aversa, con Ni­cola Alfiero, e fummo bloccati dalla polizia: in mezzo alla strada c’era un morto ammazzato da poco, in una di quelle ’guerre di camorra’ che continuavano – che continuano – a insanguinare quel territorio la più cruenta delle quali fu la cosiddetta ’guerra di Scampia’ di pochi anni fa. Dal giorno in cui don Peppino fu uc­ciso sono passati sedici anni, e in mezzo c’è stato il libro di Roberto Sa­viano, Gomorra, che ha minuziosa­mente indagato e narrato, con i mo­di di un giornalismo letterario origi­nale e generoso, le particolarità di quella parte d’Italia, le vicende delle organizzazioni criminali della zona, la loro natura economica, i loro le­gami con la politica, la loro influen­za sui modi di vivere e sentire della popolazione. Uno dei capitoli più belli del libro ricostruisce vita e a­zioni di don Diana, e ha procurato u­na nuova e dovuta attenzione alla sua storia, ampiamente citando dai suoi scritti, che vennero raccolti e pub­blicati per la prima volta nel volume del ’94.

Dopo di allora, si sono moltiplicate le iniziative per ricordare don Diana, dei tipi più diversi, e alcune di esse hanno rasentato il folklore para-te­levisivo o vi sono implacabilmente cadute. La schiera dei ’professioni­sti dell’antimafia’ è in continuo au­mento, ed è questa una delle forme più insidiose della falsa coscienza na­zionale nei confronti di una malavi­ta che è espressione di una floridis­sima economia criminale. Denun­ciare è facile, meno facile interveni­re, sul posto e nei modi utili e giusti, che possono cambiare i modi di vi­vere consolidati, accettati. Questo succede spesso, in Italia, ed è dove­roso continuare a scandalizzarne, ma così è, e ci si è fatta l’abitudine. Non ha molti scrupoli, la ’società dello spettacolo’ – anzi ’dell’avanspetta­colo’, come ha detto qualcuno pen­sando ai finali disastri che essa sem­bra annunciare, e forse invocare.

Il sangue di don Diana ha smosso qualche coscienza, ha sollecitato qualche giusta riflessione, ha co­stretto molti a guardare in faccia la realtà. Ma non possiamo farci illu­sioni: la camorra e le mafie sono un male inestirpabile, in una società co­me la nostra. Nel mondo in cui vi­viamo l’economia è strettamente le­gata al crimine (si calcola che l’eco­nomia criminale in senso stretto in­cida per il 12% per cento sulla nostra economia complessiva, ma questi calcoli non tengono conto, per e­sempio, del mercato ufficiale delle armi, considerato parte dell’econo­mia legale, ’giusta’, ’normale’) e la concorrenza è l’anima dell’econo­mia, di ogni economia. Le guerre di camorra non finiranno facilmente, e quando ci si trova di fronte a un’ap­parente pace sociale (come è il caso, oggi, della Sicilia), bisognerebbe in­terrogarsi sulle sue ragioni, e dubi­tare dell’accordo transitorio tra le parti (le ’famiglie’ tra loro, le fami­glie e la società in cui operano, il ’gio­co’ degli interessi e degli scambi…). Le ’guerre di camorra’ sono un a­spetto inevitabile dell’economia at­tuale, mondiale? Esse sono in ogni caso un ’incidente’ ripetibile, sono una componente inevitabile del ca­pitalismo contemporaneo. Ed è di qui che bisognerebbe partire per af­frontare degnamente i problemi con­nessi al crimine organizzato nel no­stro Paese – e sia dunque lode a chi ha insistito su questo aspetto, il più ipocritamente taciuto dai nostri me­dia e dai nostri ’buoni’ per mestie­re, dai nostri denunciatori di profes­sione.

Della raccolta di scritti di don Diana, di scritti su di lui e sul suo sacrificio, di scritti sulle condizioni della zona in cui egli operava e sulle organizza­zioni criminali dell’aversano che mettemmo insieme nel lontano 1994, si sono serviti in molti, Savia­no compreso per il bel capitolo di Go­morra

su don Peppino, la cui vicen­da è stata all’origine della sua prima comprensione critica della realtà in cui è cresciuto, ma quasi tutti si so­no dimenticati di citarla. Ci siamo al­lora chiesti, i promotori e redattori di quella modesta e doverosa impre­sa, se non valesse la pena di ripro­porla, come documento ancora va­lido di una vicenda che ci sconvolse e commosse e di un’esperienza u­mana, civile e religiosa da non di­menticare; abbiamo letto quel che a­vevamo scritto e raccolto alla luce dell’oggi, cercando di allontanare qualsiasi tipo di compiacimento, e ne abbiamo concluso che ne vales­se la pena, anche se sta al lettore il giudizio definitivo.
Nel documento del Natale 1991 che dà il titolo al nostro libro, stilato da don Diana con gli altri sacerdoti di Casal di Principe e che ci è sembra­to attuale oggi quanto ci sembrò es­serlo ieri, si ricordava come fosse «or­mai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infil­trazione del potere camorristico a tutti i livelli» e si auspicavano anzi­tutto «nuovi modelli di comporta­mento ». La constatazione e l’invito non hanno perso di valore. Le de­nunce senza l’azione servono a nien­te, il sacrificio di don Diana ci ri­chiama prima di ogni altra cosa al nostro dovere di essere insieme più acuti e lucidi sulle contraddizioni di un sistema economico, politico e so­ciale anche nelle sue ricadute antro­pologiche e culturali, più diffidenti nei confronti di chi parla e non fa, più coerenti nel commisurare le pa­role e le azioni, nel tradurre nella pra­tica le nostre persuasioni.