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 2010  ottobre 07 Giovedì calendario

SE MI HANNO DIMENTICATO UNA VOLTA

[Intervista a Elio Germano]
Quest’estate sono ripartito da zero». Elio Germano ti racconta che, dopo i fasti di Cannes, non ha speso nemmeno un minuto ad autocelebrarsi e ha iniziato a girare l’Italia portando in scena il monologo sperimentale Thom Pain (basato sul niente) tratto da una pièce dell’autore americano Will Eno. È stato più che un viaggio, per lui, un ritorno alle origini, al teatro: «Solo io sulla scena: nessuna scenografia e la mia parola». Elio inizia a raccontare del suo spettacolo, e lo fa con un registro autoironico e apparentemente minimale che è lo stesso con cui alla fine sceglie di raccontarti tutta la sua biografia: «Che devo dirti? È un testo che parla di se stessi, dell’amore e quindi della vita. I monologhi non si possono raccontare: o si recitano o si sentono».
Lo cerchi per una intervista, l’attore italiano più celebre del momento, e non trovi quello che ti aspetti. Nessuna adrenalina, nessun autocompiacimento da star, molti dubbi e una nota di scetticismo sul ruolo dell’attore in Italia e sul futuro della sua carriera. Germano è, a dir poco, riservato: «Oddìo, si deve proprio parlare della mia famiglia?». Ma poi, quando inizia a ripercorrere la sua splendida gavetta, il tono cambia, il volto si illumina, sul viso guizzano i sorrisi affilati che hanno fatto la fortuna dei suoi personaggi, il discorso si infittisce di battute e di aneddoti memorabili.
Quando hai iniziato a fare l’attore?
«Mai».
Come, «mai»?
«Non ho mai pensato, nella mia vita, che avrei fatto questo mestiere. È accaduto».
Ma se esordisci addirittura nel 1992 con Castellano e Pipolo, in Ci hai rotto papà… Avevi 12 anni.
«Fare una parte non significa avere un mestiere. Io ho amato follemente recitare, ma mi sono sentito un attore professionista, uno che vivrà di questo, solo dopo il David di Donatello vinto nel 2007 per Mio fratello è figlio unico».
Primissimo ruolo nella vita?
«Mamma mia… Forse, a pensarci bene, una recita in colonia, al mare. Credo che facessi Mowgli, in Il libro della giungla. Avrò avuto sei anni. Considerarlo un esordio è pericoloso, direi. Però sentii il desiderio di riprovarci con gli amici nel paese dei miei, a Duronia. Le prime repliche, eh eh…».
Avevi altri destini possibili?
«Ero e sono un grafomane. Riempio quaderni. Ero sicuro che avrei fatto il disegnatore o il grafico. Non mi presero alla scuola di fumetti, cercai il teatro».
La “sliding door” che ti cambia la vita?
«Una coincidenza: a piazzale degli Eroi, dove i miei nonni erano portinai, abitava Jole Silvani, un’attrice di Paolo Poli. Lui mi consigliò la scuola del Teatro dei Cocci. Fu la mia fortuna».
Sono veri quei luoghi comuni sul teatro che ti cambia la vita?
«Mi prendevano in giro: “A Dàstiiin!”. Per dire che assomigliavo a Dustin Hoffman. C’era del vero: non sapevo parlare bene, comunicare con le ragazze, esprimere le mie idee. Ero muto. Recitare, anche se non era ancora un lavoro, era già una liberazione».
Con la gavetta delle pubblicità inizi a professionalizzarti...
«Nemmeno. L’ho fatto con leggerezza, senza pensare che da lì potesse iniziare un percorso serio».
Ho il dubbio che sia una posa: non si fa teatro se non si sogna di vivere sul palcoscenico.
«Per lungo tempo ho pensato che fosse una carriera casuale».
Dopo il liceo scientifico eri già al Teatro dei Cocci.
«Con lo stesso spirito con cui molti fanno pianoforte o tennis, ma non per questo aspirano a diventare Rubinstein o Panatta…».
La prima vera parte dopo la recita in colonia?
«Non posso scordarla. Arturo, nel Re Giovanni di Shakespeare».
E la notorietà della pubblicità, i primi soldi veri?
(Risata sonora). «Ma quale notorietà! Arrivai a fare lo spot del Kinder Bueno quasi per caso. Una parte terrificante: ero l’adolescente che mangiava lo snack e faceva segni strani dalla finestra. Ti riconoscevano gli amici. Di recente ho ripensato a quello spot sperando che qualcuno lo distruggesse…».
Cercheremo le foto. Che anno era?
«Il 1995, forse. È come se stessi facendo outing, sono cose che dovrebbero essere dimenticate».
La pubblicità rendeva molto, potevi permetterti cose che ai tuoi coetanei erano negate…
«Macché, vivevo normalissimamente! Ti racconto un dettaglio: i primi soldi che ho guadagnato, io, in realtà, non li ho mai spesi. Li ho ancora da parte, cento banconote da mille lire conservate scaramanticamente, in un cassetto, a casa dei miei. Era come se fossero un amuleto, per me».
E come mai?
«Credo per una proiezione inconscia: hai guadagnato qualcosa, ma non è ancora un lavoro. Quindi non li spendi. Adesso sono soldi fuori corso: cosa vorrà dire?».
Oggi che rapporto hai con il denaro?
«Non è un problema, per me, solo un accessorio importante della vita. Alterno momenti parsimoniosi a periodi dispendiosi».
Altri momenti della tua carriera che i biografi ufficiali non dovrebbero conservare?
(Altra risata). «Già che ci siamo. Distruggiamo anche la pubblicità del dado Knorr. C’era la solita mamma in cucina… Però si vinceva un motorino. E così, per farlo vedere, arrivava guidato da un ragazzetto ingelatinato con un sorriso da fesso. Io».
Vedi che cerchi sempre di minimizzare? Intanto passavi da una scrittura all’altra…
«Si vede che non conosci quel mondo, il sottobosco dei provini romani… Non era quello di Non è la Rai, il colle Palatino delle ragazzine in cerca di futuro. Era un tirare a campare, una burocrazia capitolina. Andavamo in agenzie come la Wind, stavamo per ore in fila, cazzeggiavamo per ingannare l’attesa e poi non ci prendevano».
E invece arrivava il gran momento del colloquio.
(Altra risata, riproduce il dialogo romanesco del selezionatore tipo). «“Come te chiami, bello?”. “Elio”. “Bella, Elio! Profilo destro-profilo sinistro. Ciao”».
Caspita.
«Capisci? Era una carriera di episodi strani e di speranze tragicomiche. Ci siamo fatti le ossa in quel periodo, dietro le quinte dei casting di Cinecittà, una generazione di futuri attori che non immaginavano di arrivare: io, Libero De Rienzo, Claudio Santamaria… Ho incrociato anche la Cortellesi, prima che fosse la Cortellesi».
I primi ruoli che per te hanno contato?
«Nel teatro. Cose che si mettevano su senza soldi. Ricordo Cruda, nel 1997: avevo la parte di un ragazzo che veniva mangiato… E poi un ruolo serio: A pesca di corvi, di Marcello Conte, su tre deportati in un campo di concentramento. Io e Libero facevamo coppia fissa: estraniati, beffardi, complici».
Artisticamente?
«No, nella vita. Ti racconto un’altra cosa di cui dovrebbe sparire il ricordo: lui girava con i capelli tinti di blu e con la gonna».
Con la gonna.
«Per stupire. A volte anche con un cagnolino».
E tu?
«Per non sfigurare al suo fianco, iniziai a portare una bombetta: dovevo pure darmi un tono».
E funzionava?
«Altroché. Hai presente quella fase della vita da ragazzo in cui tutti ti chiedono burocraticamente: “Ma-tu-che-lavoro-fai?”. Io rispondevo: “Teatro!”. E tutti ribattevano: “Ah…”, come se avessi comunicato un lutto in famiglia. E poi guardavano Libero come se fosse un demente: “E lui?”. Non sapendo che rispondere, tacevo».
E con la bombetta?
«Cambiava tutto. Già la domanda si riempiva di curiosità: “Ma-tu-che-lavoro-fai!!??”. E io: “Teatro…”. E tutti ribattevano: “A-àààhhh!”, come se fosse una cosa fichissima. E poi guardano Libero ammirati: “Anche lui, vero?”. E io: “Di più, di più…”».
Fantastico.
«Adesso che mi ci fai pensare, dovrei risponderti che il primo vero ruolo che ho recitato con successo è stato quello: l’aspirante attore. Era già qualcosa, capisci?».
La svolta della tua vita, però, è il 1999: sei impegnato in una tournée teatrale - recitano le biografie - e invece sei folgorato sulla via dei Vanzina.
«Sciocchezze. Nessuna folgorazione. Il centesimo dei provini a cui partecipammo, con Libero, fu il loro. Cercavano un ragazzino per Il cielo in una stanza. Incredibilmente mi presero. E allora, se volevo fare il film, non potevo proseguire lo spettacolo che stavo facendo con Giancarlo Cobelli. Non c’era nessuna scelta di campo».
Ma oggi passi molto tempo sulla tua pagina fan di Facebook?
«Facebook? Non frequento social network».
Ecco, esce fuori l’attore snob che dice di non curarsi della celebrità.
«Macché. Anzi, il contrario. Mi sarebbe piaciuto, ma sono troppo obsoleto. È successa la stessa cosa con Winnie 11… quando me ne sono accorto era troppo tardi».
Con chi è successo?
«Un videogioco. Sai come succede, no? Improvvisamente la febbre si diffonde e tu te ne accorgi perché vedi gli amici, uno a uno, che ci cascano. È la moda. Tutti iniziarono a giocare a Winnie 11 e io a prendere in considerazione l’ipotesi di adeguarmi ai tempi. Avevo appena deciso di farlo, che era uscito Winnie 2. Praticamente ero fuori corso, come le banconote del primo lavoro. È una costante della mia vita. Non gareggio perché non sono competitivo. Così è accaduto con Twitter e le altre cose».
Cioè?
«Intuisco che potrei trovare cose interessanti. Ma troppo tardi per poterci capire qualcosa: e il treno è già passato».
Vieni da una famiglia importante, una dinastia del cinema?
«Figùrati. I miei, persone fantastiche, socialmente parlando sono niente. Un’impiegata e un architetto: considero una fortuna avere avuto una famiglia normale».
Sei credente?
«Nemmeno battezzato».
Sei fidanzato?
«Felicemente fidanzato. Ma se mi chiedi con chi e cosa fa lei, è già troppo: preferisco non parlarne».
Anche dopo i grandi successi del cinema a Roma hai continuato ad abitare in un quartiere popolarissimo, Spinaceto.
«No…».
No?
«Non è una scelta epica. O una posa. Non ho “continuato” eroicamente».
Però una star del cinema potrebbe essere tentata da un appartamento di pregio, le terrazze romane…
«Lì avevo la casa e lì sono rimasto, senza la pretesa che questo diventasse un accessorio della mia immagine pubblica. Vedi, è curioso questo lato della celebrità: per lungo tempo abiti in un posto e ti considerano quasi uno sfigato. Poi vinci a Cannes e ti trovi i paparazzi appostati, come se fosse una cosa da zoo… Ecco perché non è snobismo. Preferisco non parlarne».
È la legge della bombetta…
«Al contrario, però».
Hai difeso pubblicamente Corviale, il palazzo più lungo di Roma che molti considerano il simbolo del degrado.
«Perché proprio non sopporto il radicalchicchismo di quelli che sussurrano: “Che posto terribile!”. Se vanno a Parigi e vedono Le Corbusier, è un genio. Se vanno a Corviale gridano: “Che schifo!”. Nessuno dice che quella struttura era pensata con campi da calcio, sale comuni, teatri… Certo, se si permette che la gente chiuda una terrazza per farsi l’appartamentino abusivo, poi fa schifo».
Torniamo alla carriera. Lavori con Scola in Concorrenza sleale, con Crialese per quel capolavoro che è Respiro. Conquisti parti importanti come in Che ne sarà di noi di Veronesi e Romanzo criminale di Placido...
«Ma non sono mai ruoli da protagonista. È la stessa logica del tempo dei provini, in grande. In questo periodo mi sentivo ancora come un operaio di giornata che trovava lavori saltuari».
Poi la consacrazione: con N (Io e Napoleone) e Mio fratello è figlio unico la critica si accorge di te; scrivono: «È nata una stella».
«Ho capito come è curiosa la vita. Il film di Paolo Virzì sulla carta sarebbe dovuto essere un grande successo. Quello di Luchetti era un esperimento coraggioso ma rischioso: malgrado per me fossero entrambi bellissimi, è accaduto il contrario. Grande successo per Mio fratello, risultato deludente per N (Io e Napoleone)».
Presentando il film di Luchetti (Mio fratello è figlio unico, ndr) dal romanzo di Antonio Pennacchi, avevi detto: «Per me la cosa più difficile è stato calarmi nei panni di un fascista».
«Non c’era alcuna connotazione spregiativa nella frase. Era una difficoltà vera: per storia e cultura mi considero antifascista».
Sei di sinistra.
«Sì. Anche se, come tutti, in questo momento ho difficoltà a capire dove sia la sinistra in Italia».
Spiega.
«Ti poni delle domande, per esempio, quando vedi che c’è una sinistra che difende il liberismo più sfrenato, o i licenziamenti alla Fiat, e che magari c’è un’ultradestra che fa battaglie giustissime come quelle per il diritto alla casa o al mutuo sociale».
Parli di CasaPound, i centri sociali di destra.
«Sono lontano anni luce. Però mi incuriosisce questo paradosso».
Si può provare a trovare un filo conduttore nei grandi ruoli che hai interpretato: a partire da La nostra vita sono tutti personaggi controversi, lunari, in cui la linea di divisione fra bene e male è molto sottile.
(Scherza). «Così, mi preoccupo».
Ti disegnano cattivo come Jessica Rabbit ma non lo sei?
(Ride). «Non è una cosa pianificata a tavolino, è il modo in cui ho interpretato questi ruoli. Mi interessa la rottura degli stereotipi bene/male e buono/cattivo».
Lo sai che devo farti la domanda terrificante sui progetti nel cassetto?
«Tanto la risposta è facile. Non ne ho. Uscirà un film tedesco che ho già girato, La fine è il mio inizio, tratto dall’ultimo bellissimo romanzo di Tiziano Terzani».
Adesso concediti un ruggito di orgoglio: sei coprotagonista al fianco del grande Bruno Ganz.
«È stata un’esperienza bellissima, anche sperimentale. Ognuno ha recitato nella sua lingua e poi ci siamo doppiati per le edizioni nazionali. Significa che non esiste un audio originale del film».
E cosa è cambiato, per voi?
«Tutto. A volte, con il copione in mano, finisce che fai finta di ascoltare e ti concentri solo sulla tua parte. E intanto pensi: “Che faccia sto facendo mentre quello parla?”. Invece, così, sei talmente immerso in questa sfida linguistica che dimentichi di contemplarti mentre fai finta di ascoltare».
Lo vedi che ora sei una star?
«Ti racconto questa: mi premiarono nel 1999, mi diedero il premio Attore rivelazione. Non dico che mi fossi montato la testa, ma mi chiedevo: “E ora?”».
Cosa accadde?
«Si dimenticarono di me».
A Cannes, nel discorso d’onore per il premio, hai attaccato Bondi…
«Ho avuto dei dubbi solo su come dirla, quella cosa. Ma era giusto farlo: un attore, senza il suo ambiente, non è nulla. Un ministro non può disertare il più importante festival d’Europa solo perché c’è un film che politicamente non gli piace».
Ma adesso ti senti arrivato?
(Allarga un altro sorriso). «Adesso sono un attore. Ma se mi hanno dimenticato una volta, può accadere ancora. Un film è un regista, un produttore, la troupe, la distribuzione... Tante cose che non controlli. Così riparto dal teatro. Per ritornare a crescere, con i piedi per terra: anzi, sul palco. Dove tutto dipende da me».