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 2010  ottobre 17 Domenica calendario

IL MIO PELLEGRINAGGIO NEI LUOGHI DEL CALVARIO DI MARICICA HAHAIANU

Pioviggina sulla Casilina intasata anche di sabato, sui padiglioni tristi dell’ospedale “Casilino” di Roma. Nel bar del nosocomio tre zingare bevono un cappuccino schiumoso, una signora romana smagrita e nervosa, invece, chiede con insistenza un tramezzino «co’ ll’ovo e cor salame». Salgo - a bordo di un ascensore cigolante e angusto - al reparto di neurochirurgia, dove pensavo fosse stata ricoverata Maricica Hahaianu, la ragazza romena di trentatrè anni morta in seguito a una colluttazione con il pugile romano Alessio Burtone, che ha gettato alle ortiche i suoi vent’anni per un’ira sciagurata, ma lì mi dicono che Maricica è stata ricoverata in rianimazione, e che ora è all’obitorio, terzultima stazione prima della pace eterna: fra qualche ora, infatti, la salma verrà trasferita per l’autopsia all’Istituto di medicina legale del Verano, mentre in seguito tornerà nella sua città di origine, che è Focsani, nella Vrancea, regione Sud-Est della Romania.
Piove sulle teste rasate dei becchini, e piove sulle teste dei pochi giornalisti che stancamente si occupano ancora di questa tragedia in procinto di sparire dal circo mediatico. Se Maricica fosse stata italiana, al contrario, oggi avremmo un cancan assordante, ma Luciana Ludusan - che mi raggiunge all’ospedale per aiutarmi a capire meglio questa storia - scrolla le spalle rassegnata, perché quando muore una romena - secondo la pancia popolare che lei ben conosce - o è una mignotta, o è una ladra o, molto più semplicemente, se l’è andata a cercare. «Il guaio - mi dice Luciana - è che anche noi romeni siamo poco uniti tra di noi. Purtroppo non riusciamo a farci conoscere davvero per quel che siamo nella realtà».
Con Luciana - che è una benefattrice romena che ama aiutare la gente della sua terra nell’anonimato più totale - andiamo a Centocelle, a prendere Miruna Gajvaneanu, giornalista romena che vive in Italia da undici anni e che racconta quotidianamente la comunità romena in Italia sul sito www.iromeni.com, dopodiché ci dirigiamo verso l’Anagnina, importante snodo ferroviario e metropolitano di Roma, dove Maricica, purtroppo, ha trovato una stupida e indegna morte.
Arriviamo sgomenti nel punto esatto dell’incidente. Appoggiati a un pilastro ci sono mazzi di fiori, candele, nastri coi colori della Romania e preghiere (tra cui un passo del Vangelo secondo Matteo). Gruppi di romeni sostano davanti al pilastro col capo chino; qualcuno commenta, altri, in silenzio, si fanno il segno della croce. A pochi metri c’è la telecamera che ha ripreso la violenza incontrollabile di Burtone; appena più avanti c’è il tabacchino dove sarebbe iniziato il litigio; qualche metro più in là, centinaia di scioperanti della Fiom fischiano e battono i tamburi della rivolta operaia, anche se ignorano che a pochi metri da loro c’è un piccolo sarcofago della classe operaia umiliata, ché Maricica era un’infermiera, mentre suo marito, Adrian, è un fabbro (lei lavorava sull’Appia, lui batte il ferro a Torre Angela). Ma la Fiom grida a squarciagola soltanto slogan contro i Tulliani: troppo difficile provare a pronunciare il cognome Hahaianu.
All’improvviso la figlia di Miruna di nove anni chiede alla madre: «Mamma, cosa significano tutte queste bandiere rosse?». E Miruna sorride con amarezza, perché quelle bandiere rosse sono state il motivo del suo tormento - e, oggi, svolazzano cieche davanti a questa piccola tragedia operaia, passando oltre, verso lì dove oggi sono accese le telecamere.
Come siano davvero andate le cose qui all’Anagnina nessuno lo sa con certezza, ma tra i romeni si fa strada la convinzione - supportata da una testimonianza in seguito ritrattata - che Maricica si sia imbestialita non solo per essere stata scavalcata nella fila, ma soprattutto per essersi sentita dire due frasi offensive: «Tòrnatene nel tuo paese» e «Voi rumene siete tutte mignotte». A quel punto Maricica non ci avrebbe più visto, fino al tragico epilogo.
Luciana se ne sta in disparte e, forse, la sua mente torna ai giorni - vive in Italia da quindici anni - quando il figlio stava in Romania e lei lavorava in Italia, e il figlio poteva sentirlo solo per telefono; forse pensa al destino di Maricica, che aveva lasciato il figlio di tre anni a Focsani dai nonni, perché, come mi spiega in seguito Luciana, «molti romeni lasciano i figli in patria perché qui non saprebbero a chi lasciarli, perciò decidono di fare sacrifici per un certo numero di anni per poi ritornare a casa con un po’ di risparmi». Forse pensa a tutto questo, oppure pensa a quel bambino che ancora non sa che la sua mamma è morta per sempre, morendo nel modo più stupido: litigando con un italiano di vent’anni per una fila non rispettata.
Al nostro piccolo gruppo si aggiunge anche Giancarlo Germani, segretario del partito “Identitatea Romanesca”, che subito mi dice: «In questa storia c’è un buco clamoroso. L’incidente avviene venerdì 7 ottobre, mentre la notizia finisce sui giornali solo l’11 ottobre. Come mai? Se Maricica fosse stata italiana le cose sarebbero andate nello stesso modo?». Tutti annuiscono impotenti. La più agguerrita è invece Miruna, che snocciola dati e circostanze dell’infinita umiliazione che i romeni subiscono in Italia. Fino allo sfogo finale: «Il peggio di tutti è stato Veltroni, quando disse che i due terzi dei carcerati in Italia erano romeni. Una bugia assoluta».
Luciana e Miruna mi riaccompagnano all’ospedale “Casilino”. Più tardi torneranno all’Anagnina, a portare altri fiori. La pioggerella è passata, ma il grigio del cielo si è illividito. Mi dirigo verso l’obitorio, e qui riesco a parlare al telefono con l’avvocato della famiglia di Maricica, Alessandro Di Giovanni, che mi dice che Burtone sarà processato per omicidio preterintenzionale, mentre tutti quelli che non hanno vergognosamente soccorso per molti minuti la povera ragazza romena non potranno - purtroppo - essere processati, perché non direttamente coinvolti nell’omicidio. Fra qualche giorno, invece, non appena sarà effettuata l’autopsia, ci sarà l’ultimo viaggio di Maricica verso il cimitero di Focsani, ché il suo sogno italiano è finito nel peggiore dei modi.
Molto probabilmente suo figlio verrà in Italia, nella casa di Torre Angela, dove un tempo viveva una famiglia che sognava una vita migliore, e che ora è senza moglie e senza più madre; una famiglia distrutta per la stupida ira metropolitana romana, che ogni giorno di più monta per strada, lungo le file agli sportelli, non appena si verifichi un intoppo, una discussione, un quiproquo, una bazzecola. Basta niente, a Roma, e la stupidità diventa crudeltà, minaccia, ingiuria. Ma quando sono all’altezza del Pigneto, in un momento di quiete, la morte di Maricica, non so bene perché, mi riempie di vergogna e di paura.