Arnaldo Benini, Il Sole 24 Ore 17/10/2010, 17 ottobre 2010
PERCHÉ SIAMO IL NOSTRO CERVELLO
Bertrand Russell, a chi gli chiedeva se la coscienza fosse collegata al cervello, rispondeva che è sufficiente dar una botta in testa a qualcuno per fargliela perdere temporaneamente o per sempre. Non c’era bisogno di altre conferme. Anziché tener conto dell’osservazione di Russell, Alva Noë, in fama di filosofo perspicace e raffinato, cerca di convincerci che «La coscienza non accade nel cervello», che «il cervello non è quella cosa dentro di noi che ci renda coscienti, poiché in realtà non vi è una cosa dentro di noi che ci rende coscienti». Egli nega che «noi siamo il nostro cervello», anche se concede che ne abbiamo uno e che abbiamo una mente, avere la quale «richiede di più di un cervello. I cervelli non hanno mente. Gli esseri umani e gli altri animali si».
Alla domanda: «Come scaturisce la coscienza dal cervello?», è sicuro di poter dar «prova che ciò non accade», perché le «neuroscienze cartesiane non dispongono di una corroborazione empirica per la loro assunzione base secondo la quale l’esperienza cosciente sarebbe un fenomeno neurale». Irride la localizzazione delle aree del linguaggio nell’emisfero sinistro del cervello e il ruolo della neocorteccia nelle funzioni cognitive superiori, come se essi non fossero corroborati da una mole enorme di dati sperimentali e clinici. Primo argomento per demolire le «neuroscienze cartesiane» è un esame dello stato vegetativo permanente e del locked-in syndrome. Il presupposto che la coscienza non scaturisce dal cervello porta l’autore a sostenere che la gravità di una lesione del cervello non è uno dei parametri dello stato della coscienza. Per chi conosce queste tragiche condizioni, non solo in teoria ma per pratica clinica, ciò che Noë scrive è pura, azzardata e spesso sfrontata speculazione, senza alcun rapporto con le conoscenze teoriche e con la realtà, tanto più irritante per l’estrema delicatezza medica ed etica di quelle condizioni.
Per dar maggior peso alle argomentazioni, Noë ricorre all’espediente molto cheap di chiedere al lettore di immaginare un «nostro caro» o «nostra figlia» in quelle condizioni. Chi ha esperienza di queste cose sa che il loro inevitabile e drammatico aspetto affettivo non ne facilita la valutazione oggettiva. L’autore arriva a insinuare il dubbio circa la morte corticale di Terry Schiavo, il cui cervello, all’autopsia dell’1 aprile 2005, pesava meno della metà del normale (http://www.co.pinellas.fl.us/forensics). Circa le neuroimaging (Pet, Tac e risonanze magnetiche), Noë si affanna a demolire un edificio inesistente: nessun addetto ai lavori ha mai creduto che quelle tecniche mostrino ciò che avviene in aree cerebrali attive. Esse mostrano che alcune aree in certe condizioni sono attive, con molte riserve circa la liceità di collegare quell’area a quel che il cervello sta facendo, perché la neuroimaging non mostra ciò che nelle aree attive avviene. L’attività casuale (o, come oggi si dice, undirected) del cervello impone una cautela di cui si è ben consapevoli.
In una resa dei conti col riduzionismo non poteva mancare un attacco alla psicofarmacoterapia, specie nella cura delle depressioni. Che dietro a essa ci sia la pressione delle compagnie farmaceutiche è indubbio e talora anche pericoloso. Ma è altrettanto certo che un fiume di lavori con tutti i crismi delle indagini prospettiche randomizzate conferma che le depressioni e molte altre psicopatologie migliorano o guariscono esclusivamente se curabili e curate con psicofarmaci.
Nelle duecento pagine scritte per tracciare «una teoria radicale della coscienza» Noë non ricorda nemmeno incidentalmente la Global Neural Workspace Theory, presa in considerazione da filosofi come N.Block, D.C. Dennett e J. Searle, e alla quale da molti anni lavorano alcuni dei maggiori centri di ricerca neurocognitiva del mondo. Essa è uno degli approcci fondamentali ai meccanismi della coscienza. Per Noë i dati empirici sono irrilevanti. Ne è un esempio la disinvoltura con la quale s’azzarda a liquidare una delle maggiori ricerche dello scorso secolo, quella sulla fisiologia della visione di David Hubel e Torsten Diesel: essa non sarebbe «in grado di dirci qualcosa sulle basi cerebrali della visione» (p.172). Nientemeno!
La teoria radicale della coscienza proposta da Noë si basa «sull’idea che la coscienza dipenda dall’interazione tra cervello, corpo e mondo». Oh santa sprovvedutezza! Da decenni questo è il fondamento dei meccanismi percettivi, cioè del rapporto fra cervello e mondo esterno, corroborato, arricchito e rivisto da un’infinità di studi. Gerald Edelman (che Noë non ricorda) e la sua scuola vi hanno portato contributi importanti. La percezione, per Edelman, è «un atto di creazione», perché modifica la regione corticale che la elabora. Recentemente lo scienziato Wolf Singer ha creduto di dimostrare che la corteccia prefrontale si modifica in seguito alla meditazione, cioè a un’attività della coscienza senza alcun rapporto con l’esterno. La coscienza è un tema troppo delicato per acrobazie speculative.