Eva Cantarella, Corriere della Sera 18/10/2010, 18 ottobre 2010
NESSUNA PRIVACY E SEVERE AUDIZIONI ARMI (DIMENTICATE) DELLA DEMOCRAZIA
«Hai pagato le tasse?». Ad Atene, era una delle domande alla quale doveva rispondere chi era stato designato a ricoprire una carica pubblica. Seguivano altro domande: «hai fatto il servizio militare?», «tratti bene i tuoi genitori?». E poi altre, ancora, che riguardavano il comportamento sia civico sia familiare e personale del candidato. Il sorprendente (per noi contemporanei, «scioccati» dalla denuncia dell’ex ministro Pisanu sulla presenza di candidati «indegni» alle ultime amministrative) interrogatorio si chiamava docimasia ( dokimasia), vale a dire esame, scrutinio, e si svolgeva dinanzi ai cittadini riuniti nell’Eliea, il tribunale popolare istituito da Solone, dove l’indagine proseguiva per consentire ai cittadini di valutare se il designato possedeva i requisiti considerati necessari per mitigare i possibili inconvenienti legati al fatto che, di regola, le cariche pubbliche venivano sorteggiate, e la sorte non necessariamente premiava persone che potevano essere ritenute degne. Al qual fine, per consentire ai cittadini di farsi un’opinione in materia, accanto alle domande sopra citate, riportate da Aristotele nella Athenaion Politeia, ai candidati, dopo aver chiesto le generalità (ovviamente, per accertare il possesso dello status di cittadino), si chiedeva se avevano rispettato i culti pubblici e privati. E quindi, come scrive lo stesso Aristotele, il presidente della seduta chiedeva all’assemblea: «C’è qualcuno che vuole accusare quest’uomo?». Così, genericamente, senza alcuna specificazione, senza alcuna indicazione dei comportamenti rilevanti ai fini della decisione che doveva essere presa. La genericità della domanda fa pensare alla massima libertà e ampiezza dei temi, chiaramente confermata, del resto, dal fatto che — come possiamo leggere in un’orazione di Dinarco — di coloro che aspiravano a ricoprire cariche pubbliche si scrutinava anche il tropos, vale a dire il carattere, l’indole personale. Per ricoprire una carica pubblica, insomma, chi era stato designato a farlo doveva superare un esame che prendeva in considerazione ogni aspetto della sua vita, senza zone protette; i cittadini dovevano verificare che possedesse le virtù civiche e personali considerate indispensabili, e per finire dovevano valutare la sua indole. Pensando a quel che oggi ritiene una parte dell’opinione pubblica e sostiene una parte dei politici vien fatto di chiedersi se gli ateniesi — di fronte a una pratica come la docimasia — non temevamo di veder messo in pericolo il loro diritto a quella che noi chiamiamo privacy. La risposta sembra decisamente negativa: neppure per sogno. Sentiamo quel che dice in proposito Eschine, con riferimento a un altro scrutinio, la cosiddetta «docimasia degli oratori», alla quale venivano sottoposti i cittadini che prendevano la parola in assemblea. Il diritto di parlare liberamente in quella sede, come ben noto, la celebre parrhesia, era uno dei principi fondamentali della democrazia ateniese: ma proprio perché era così importante poteva essere tolto a chi teneva comportamenti riprovevoli. A chi aveva dilapidato il proprio patrimonio o aveva tenuto un comportamento sessuale disdicevole: come Timarco, accusato da Eschine durante un celebre processo, di aver preso la parola in un precedente procedimento giudiziario senza averne il diritto. Da giovane infatti, dice Eschine, Timarco si era prostituito. Difficile non pensare all’attuale, controverso dibattito sul rapporto pubblico/privato e su quello etica/diritto, rileggendo l’orazione di Eschine. A giudizio di questi, Solone, al quale venivano attribuite le leggi che vietavano a chi si era prostituito di parlare in assemblea, e più in generale di partecipare alle pubbliche riunioni, le aveva stabilite perché «non credeva possibile che uno stesso uomo fosse cattivo nelle questioni private e buono in quelle pubbliche, e pensava che non fosse giusto concedere la parola a chi era abile e capace nei discorsi, ma non nella vita». Non pensa minimamente, Eschine, a giustificarsi per l’intrusione nella vita privata del suo avversario. Neppure un cenno, mai, a un simile problema, nel corso dell’orazione. Con fermezza, al contrario, ricorda ai suoi ascoltatori che denunziando il comportamento sessuale riprovevole di uno di essi egli compie un’azione civicamente lodevole: accusando Timarco, dice, difendo tutti gli ateniesi, perché contribuisco a garantire la morale pubblica. Nella città dove è nato il concetto stesso di democrazia, stabilire se il candidato possedeva i requisiti personali di cui sopra era presupposto imprescindibile dell’assunzione della carica e garanzia del buon funzionamento delle istituzioni. Cosa penserebbe un ateniese del V secolo a. C. se gli fosse dato di assistere al dibattito sollevato in una repubblica democratica del XXI secolo d. C. dalla constatazione, fatta da un ex ministro di quella Repubblica, che alle ultime elezioni amministrative del suo Paese (solo quelle?) sono stati presentati candidati «indegni»? Resterebbe esterrefatto. Vale la pena ogni tanto voltarsi indietro e fermarsi a ragionare sul passato. Beninteso, nessuno intende additare i greci come modello. Ma essendo il popolo che ha «inventato» la democrazia, sapere quel che ne pensavano può aiutarci a riflettere sul significato e sul valore di questa.
Eva Cantarella