Ernesto Galli Della Loggia, Corriere della Sera 18/10/2010, 18 ottobre 2010
LA SUCCESSIONE A BERLUSCONI
Dico la verità: mi sarei aspettato che dopo le critiche mosse dal Presidente Berlusconi al suo partito, alle responsabilità che a suo giudizio questo avrebbe nella perdita di popolarità del governo, i tre coordinatori dello stesso Pdl — Bondi, La Russa e Verdini — avrebbero in merito detto qualcosa, mosso qualche obiezione, insomma si sarebbero difesi e avrebbero difeso il loro operato. Come del resto avevano fatto più e più volte in precedenza, rispondendo puntualmente e puntigliosamente a tutte le critiche apparse sui giornali o altrove (ricordo, per esempio, una lunghissima lettera indirizzata a chi scrive pubblicata sul Corriere il 4 marzo scorso). Invece niente, neppure una parola. Evidentemente ci sono interlocutori ai quali è permesso ribattere e altri, invece, con i quali è consigliabile osservare un prudente silenzio.
Ma ancora più stupefacente, in tutti questi mesi, è stato il silenzio da parte di qualcosa che pure aveva nome partito — sempre il Pdl, appunto — di fronte al sistematico prevalere nelle scelte del governo delle esigenze degli alleati leghisti. Silenzio di tomba perfino dopo l’ultimo Consiglio dei ministri, dove — per dirla nella maniera più spiccia — Berlusconi ha tranquillamente venduto alcuni ministri del suo partito (Gelmini, Prestigiacomo, Bondi, Galan e Meloni) al diktat della coppia Tremonti-Bossi.
Quando succedono cose del genere , o quando siascoltano critiche come quelle di cui sopra mosse da Berlusconi, nei partiti, in quelli veri, non c’è il silenzio dei massimi responsabili (e di tutti gli altri). Scoppia invece la discussione, il confronto, magari il litigio. Il punto dunque è sempre e solo uno: e cioè che il Pdl (così come prima Forza Italia), di plastica o no, comunque non è un partito vero. Nel caso migliore è una coorte di seguaci ciechi e muti scelti inappellabilmente dal capo; nel caso peggiore una corte d’intrattenitori, nani, affaristi, ballerine, di addetti alle più varie intendenze. Certo, il Pdl è anche un partito votato da tanti degnissimi italiani. Ma sappiamo tutti che i voti in realtà non vanno al Pdl, vanno alla persona di Berlusconi.
Ma se le cose stanno così, questo significa che l’operazione storica di sdoganamento della destra compiuta da Berlusconi nei confronti del sistema politico italiano — sì, un’operazione storica: riconoscerlo è un obbligo di obiettività che anche la sinistra sarebbe ora sentisse — questa operazione è tuttavia, per sua stessa colpa, rimasta a metà. Berlusconi, infatti, ha sì sdoganato la destra elettoralmente e sul piano del governo, ma non è riuscito a sdoganarla socialmente e culturalmente. Non c’è riuscito nell’unico modo in cui da sempre ciò avviene, e cioè creando e radicando sul territorio un vero partito, organizzato e strutturato come tale, portatore di esigenze, centro di relazioni con ambienti e personalità diverse, elaboratore di proposte, collettore di idee. E soprattutto, almeno in certa misura, centro effettivo di decisioni vincolanti per tutti, anche per i suoi capi. Non c’è riuscito perché non ha voluto, naturalmente. E non ha voluto per tre ragioni: per la paura che ciò avrebbe comunque diminuito il suo potere; per un riflesso padronale creatosi in decenni di comando aziendale, in base al quale «se io ci metto i soldi (e per giunta prendo i voti), io comando»; e infine per il difetto, che in lui è abissale, di vera cultura politica.
Lo sdoganamento della destra italiana rischia dunque, così, di finire con Berlusconi. Se le cose continuano nel modo attuale, infatti, quando il presidente del Consiglio si ritirerà dalla scena politica, il Pdl rischia verosimilmente di sfasciarsi nel giro di tre mesi, lasciando i suoi esponenti a galleggiare come turaccioli su quella marea di voti che solo Berlusconi riusciva a suo tempo a prendere, ma che ora saranno allo sbando, nella più totale libera uscita. Quale elettore di destra, infatti, si potrà mai sentire motivato a votare per Verdini, la Brambilla o Scajola? Per persone che come proprio titolo di merito saranno in grado di esibire, a quel punto, solo quello dell’obbedienza perinde ac cadaver?
Ma c’è Fini, si dice: perché non potrebbe essere Fini a portare a termine l’opera iniziata da Berlusconi? Fare profezie è vano, ma mi sembra assai difficile che lo sdoganamento ideologico-politico della destra italiana, la creazione finalmente di un suo vero partito, possano avvenire per opera di chi è stato l’ultimo segretario del partito neofascista, di chi per anni e anni si è nutrito di quegli ideali, lo ha diretto con quei metodi, con quello stile. Neppure agli ex comunisti è riuscita in modo indolore e in tempi brevi un’operazione di sdoganamento e di rifondazione che in fondo presentava da tanti punti di vista ben minori problemi; figuriamoci se può riuscire a un personaggio come Fini, che ancora non moltissimi anni fa sosteneva che Mussolini era «il più grande statista del Novecento». A me pare che in realtà, Fini — come D’Alema, come Casini, come Rutelli, come Bersani, come Fioroni, come tutta una classe politica — appaia ancora e sempre immerso per intero nel vecchio scenario della morente prima Repubblica, nella sua paralizzata e paralizzante inconcludenza. Da chi come Fini ha come primo obbligo quello di mostrarsi sempre e comunque fedele osservante delle polverose regole della democrazia italiana, dei suoi tic e dei suoi tabù, è difficile attendersi rotture e novità di qualsiasi tipo.
Sembra proprio, dunque, che dobbiamo rassegnarci: il berlusconismo è l’unica benché fangosa novità politica toccata in sorte all’Italia in questi anni. Per il dopo siamo ancora in attesa.
Ernesto Galli Della Loggia