Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 15/10/2010, 15 ottobre 2010
L’ARTE DEL VIVERE - È
stupefacente come perfino in tempo di crisi il Chiostro del Bramante riesca a presentare mostre che alla fine risultano tra le migliori della stagione. Anche questa dedicata ai «grandi veneti» e inaugurata nei giorni scorsi, merita una lunga e attenta visita. Perché gli ottanta dipinti, su tavola e su tela, sono non solo belli da vedere singolarmente, ma collocati in modo che il loro percorso diventa una guida alla storia della pittura veneta attraverso quattro secoli coagulati in cinque generazioni di artisti. E a ogni passo si trova esaltata quella maestria del «colorire» che si sviluppò a Venezia in maniera autonoma rispetto alla direzione prospettica presa a Firenze.
Si comincia con il ritratto di Lionello d’Este eseguito nel 1441 da Pisanello e una Madonna di Jacopo Bellini, i due pittori che insieme (e in competizione) danno il via a questo genere pittorico, prediligendo lo sfarzo del colore al rigore del disegno. Si prosegue con le opere dei due figli di Jacopo, Gentile e Giovanni, con Vittore Carpaccio e Lorenzo Lotto, Tiziano e Tintoretto, Paolo Veronese e Jacopo Bassano, Palma il Giovane e Tiepolo, fino a Canaletto, Guardi e Longhi. E tanti altri, meno conosciuti forse, ma non di meno interpreti di quella magnificenza dovuta sia alla tecnica pittorica, sia all’essenza stessa della città marinara al culmine dello splendore e della ricchezza.
Giovanni Villa, che insieme a Giovanni Valagussa ha curato l’esposizione, rintraccia proprio nella città l’origine del colorire come «arte di far musica con gli elementi cromatici, armonia temperatissima e proporzionata nelle sue campiture». All’origine, secondo Villa, ci sono gli effetti degli ori cangianti di San Marco, che seguono l’andamento di ogni luce. Poi la capacità segreta dei maestri di Murano di tessere la pasta vitrea e colorirla e spolverarla d’oro. Poi l’arte di vestirsi e di ornarsi, con velluti, damaschi, sete, broccati in una gamma quasi infinita di tinte e sfumature. Infine le pitture delle facciate, le gettate dei pavimenti, le decorazioni di interni. La pittura accolse in sé questa raffinata arte del vivere, giocata sulle variazioni di luce e colore.
Tutte le opere provengono dall’Accademia Carrara di Bergamo, dove i grandi conoscitori d’arte lasciano in genere le proprie collezioni, che resta chiusa per restauri fino al 2013. L’idea geniale, realizzata con il sostegno dell’assessorato capitolino alla Cultura e con il contributo di Olivetti, è stata di isolare, da un patrimonio di duemila dipinti dell’Accademia, i capolavori di scuola veneta e di portarli in mostra a Roma. Per l’occasione almeno tredici di essi sono stati restaurati, con risultati che hanno cambiato la leggibilità delle opere e spesso anche le attribuzioni: «Per esempio - dice Valagussa - il piccolo Ritratto di gentiluomo veneziano, prima attribuito a Gentile Bellini, qui è invece proposto a Vittore Carpaccio. Il trittico di Santi attribuito a Carpaccio, qui passa al veronese Paolo Morando detto il Cavazzola. San Sebastiano, dato a Jacometto Veneziano allievo di Antonello e poi passato a Bartolomeo Montana, qua torna a un pittore antonellesco. La Resurrezione di Cristo data a Basaiti ora è attribuita a Giovanni Bonconsiglio detto Marescalco».
Lauretta Colonnelli