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 2010  ottobre 17 Domenica calendario

“IO, MORETTI, I CRITICI E L’INVIDIA” - “E

Ecco penso, ma chi scrive queste cose, non è che la sera, prima di addormentarsi, ha un momento di rimorso?”. Estate romana, primi anni ‘90, frammenti di Caro Diario. Nanni Moretti spettatore solitario di Henry-pioggia di sangue in una sala deserta a due passi da Via Veneto. Un’ora e mezza di uccisioni senza senso al centro di una trama risibile. Televisori spaccati in testa alle vittime, occhi cavati, decapitazioni gratuite. Un balordo, il suo complice, decine di morti. Da qualche parte, Nanni, ne aveva letto. Si era fatto convincere. “Vago per la città, cercando di capire chi avesse potuto parlarne bene. Avevo letto una recensione, qualcosa di positivo, poi me lo ricordo e inizio ad annotarlo”. Si siede, trascrive: “Henry vive una pazzesca solidarietà con le sue vittime, è un principe sangue blu dell’annientamento e promette una morte pietosa. Henry è forse il primo a violare e vilipendere con lucidità la filofosia criminale dei lombrosiani di Hollywood”.
Quando Carlo
interpretò Silvestri
POI RAGGIUNGE il critico cinematografico. Lo interpreta Carlo Mazzacurati. Moretti lo chiuse in una stanza: “Mi convocò in ufficio con una scusa, mi diede una canottiera e girò. Sembrava una prova”. Ma Nanni non improvvisava.Davaformaallesueossessioni, accelerava sulla cattiveria senza perdere tempo. Controllò la luce, disse ‘azione’ e Carlo Mazza-curati, senza preparazione, finì per partecipare da attore, a un film da Palma d’oro. Nella scena, mentre Mazzacurati piange, si dimena e implora pietà, Nanni lo tormenta recitandogli marzialmente, a voce altissima, un’antologiadellasuaproduzionegiornalistica: “Ma quando è cominciato quando tutto questo? Eh? Forse quando hai scritto che quel film coreano ‘era un melodramma in costume, vestiti e soprattutto cappelli deliranti e superfemminista, fiammeggiante e demoniaco girato come fosse un trip alla Spielberg entrato nei ritmi e negli spazi futuristi’, oppure quando sul Pasto nudo di Cronenberg hai detto ‘Puro pus underground ad alto costo, un vero cult movie?”. Carlo Mazzacurati, regista padovano talentuoso, pigro e insicuro, passaporto timbrato dall’autoironia, vive l’anticamera dei suoi 55 anni con la memoria vigile. Non ha dimenticato nulla. Il cinèfilo italianodiallorafolgoratosullavia di una porcata balneare (l’identikit porta senza deviazioni a Roberto Silvestri del Manifesto) oggi è solo un ricordo.
L’apologia è un
inganno sottile
ANCHE se il suo mestiere è un altro e dall’esordio nell’inquietante Notte Italiana sono passati quasi 25 anni, il rapporto con la critica è rimasto difficile. “Quel film fu incensato da tutti. Anticipava il malaffare, Mani pulite, qualcosa che si respirava nell’aria. Partire così è complicato e dopo, l’eccessiva aspettativa l’ho pagata fino in fondo. Quindi oggi, senza snobismi, evito di leggere.Selarecensioneèpositiva,è una piccola pippa che come tutti gli atti onanistici, dura un tempo relativamente breve. Se è negativa, non ha nulla di taumaturgico”. Mazzacurati ha un tratto personale, anticipatorio, cupamente provinciale. Un gusto per le bassezzedisvelate,ipiccoliuomini, i dolori taciuti. Il tratto lieve e indagatorio che ha l’imperdonabile vizio d’origine di piacere al pubblico. Per alcuni, una condanna a priori. Il figlio dell’ingegnereGiovannicheneglianni‘30 correva i gran premi in Sudafrica sotto falso nome, lo sceneggiatore di Marrakesh Express, il narratorediun’integrazionedifficilein cui la dialettica è afasica, il manicheismo alla porta e la colpa, mai da una parte sola, parla fitto e spesso ride. Oltre la finestra, l’inverno precoce del Nord Est raccontato in tanti lavori. Dal Il Toro alla Lingua del santo.La giusta distanza tra riflessione e sorriso è il suo ultimo lavoro. La Passione in concorso a Venezia, (Fandango) oltre due milionidieurodiincasso, 120 copie a ballare sul territorio, è una delle sorprese della stagione.
La Passione di un
regista in crisi
UNA RAPPRESENTAZIONE
sacradamettereinscenainunpaesino toscano, un regista in crisi creativa,unaprovacollettivaincui davanti all’acclarata autoreferenzialità del mestiere, il regista accettailgiocoedissacrasestesso.Gianni Dubois non riesce a inventare. La preoccupazione è essere dimenticati. Esclusi da una doppia pagina de “La Repubblica” in cui al centrocrescel’alberodelcinemae tra frecce e nomi sottolineati, maturano solo le carriere di chi muove i fili del sistema. Dubois alias Mazzacurati, ovviamente non c’è. Schiumare di rabbia, mentre i colleghi si fanno belli. E quando telefonano per sapere come va, avvertire nell’aria un inconfondibile profumo di condoglianza anticipata. Gli è accaduto. “Mi sono sempre sentito inadeguato. In Dubois c’è molto di me e lamentare l’assenza dall’albero del cinema è un gioco realista sul narcisismo che circondalamiaprofessione.Siamo personaggipubblici.Scomparireo essere dimenticati ci ferisce. Repubblica ogni tanto ha il vezzo di pubblicare un bando. Chi conta, chi non conta. In quell’occasione mi ignorò”. L’attrice gli fa notare l’assenza: “Non ti hanno messo neanche sui rami secchi”. Lui ride: “Quello era un periodo in cui le cose andavano male. L’insuccesso è drammatico. Hai paura che non ti salutino più neanche i vicini, che ti osservinocomeunfallito.Tichiedi ‘ma perché la signora del secondo piano mi ha guardato male? Si sarà accortacheilfilmnonstaincassandouneuro?’.Sièmoltoinfantili,insicuri e a volte, senza ipocrisie, quandolecosevannomalel’insuccessodeglialtrièunbalsamo.E’orribile, ma molto umano”. Nel giorno in cui a 84 anni saluta Alfredo Bini, abile produttore artigiano di tutto il Pasolini migliore, l’occhio mira al passato. Al mare, all’orizzonte, ai duelli.
Villaggio, Ferreri e
l’odiato Bertolucci
VIENE in mente l’aneddoto di Paolo Villaggio e Marco Ferreri in gommoneallargodellecostesarde. 1972. Trionfo di Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, flop del pur bellissimo La cagna di Ferreri. Nel silenzio, mentre pesca, senza mai nominare il rivale, Marco tracima:“ A me, di quellolì,nunmenepuòfregàdimeno”. Mazzacurati ride, conosce la storia: “Le stroncature bruciano, i disastriinsalaancheeilrisentimento, oggi più di allora, è la benzina dellanostrastancaepoca.Itempiin cuiMonicelli,ComencinieScarpelli collaboravano intorno a un tavolo, felici per i successi degli altri sono un santino perduto nella memoria. Comunque mi sono avvantaggiato sull’astio. Molto spesso sono d’accordo con chi parla male di me e mi basta pochissimo perchè mi convinca di non valere nulla”.
E non è una posa, ma un sentimento al quale non ha mai derogato. “Sono contento perchè non so mai in quale zona mi trovo. Ho sbagliato molte volte, fatto delle scelte sulle quali avrei potuto meditare di più, attraversato gli anni nudo, con istintoeingenuità,maallafineapiacermi proprio non sono riuscito. Su cento fotografie che mi ritraggono ne sceglierei tre e sono quelle in cui non si capisce chiaramente che sono io. Lo stesso vale per i film. Non c’è un solo mio lavoro di cui io sia pienamente convinto, qui e là esistono angoli di luce, ma mai un’opera completa pienamente riuscita”. Dopo vent’anni trascorsi tra i fumi di Roma “inafferrabile, complessa, imbastardita”, Mazza-curati è tornato alle sue necessità. Padova, la bussola originaria, il luogo da cui ogni cosa prese il via. “La provinciaèlacondizionenellaquale continuo a rimanere perché non saprei leggere altrimenti la vita. Ma in un fazzoletto di terra, dalla mia prospettiva, se si stimola l’immaginazione, c’è spazio per l’intero mondo. Non mi sento limitato nella comprensionediciòchepulsa fuori dal Veneto. E mi capita che molte delle emozioni che riempiono i miei film, vengano intuite all’estero, che gli stranieri si riconoscano”. Pensare che primaditornare ,daPadova Mazzacurati corse via. “Eroinunacittàincuiesistevano tutte le facoltà universitarie, così scelsi il Dams, l’unica che si trovava solo a Bologna. Più che amore per il cinema, l’Emilia rappresentò un movimento di fuga”.
La Bologna degli
indiani del ‘77
TRA BARRICATE del ‘77, indiani senza riserve e carrarmati, Carlo optò per la fantasia. “Incontrai un gruppo di amici e maestri come Gianni Celati che indirizzarono la mia confusione. Scozzari, Palandri, Piersanti, Mattotti”. Poi, abbandonata l’Università al suo destino, vennero i primi tentativi di essere ciò che è oggi. Un premio a Milano, il lungometraggio (sporco e sgranato in 16 mm) dal titolo sintomatico, Vagabondi e quindi l’esordio vero, Notte italiana, prodotto dalla Sacher di Nanni Moretti.
A 25 anni di distanza, è tornato al Lido. Senza premi, senza rimpianti. Ma sì, questa idea per cui ai film italiani debba andare per forza un riconoscimento è un po’ misera. Nel ’94 ho preso un Leone d’oro, quest’anno nulla. La notte dormo lo stesso”. Come quando gli sembravache“fossetuttofinito”eper non piangere la giovinezza, scriveva i viaggi marocchini di Salvatores: “Un lungo addio, quando sei ragazzo basta poco per avere l’impressione che sia passato molto tempo e che il bello non tornerà più”. Certe atmosfere protoleghistedelNordEst,hanno in questo appassionato di nebbia, poeti come Zanzotto e avventurieridellaconoscenzadinomeRigoni Stern, uno degli esegeti più attenti. Il partito in verde, però lo apprezza poco. “Un amico, a Venezia, mi ha detto: ‘Il film da cui i leghisti si sentono più rappresentati è La solitudine dei numeri primi di Costanzo”.
Piccola, ironica vendetta. “Avevo deciso di mettere una magnifica cravatta verde per la prima della Passione, ma dopo averlo saputo, ne ho indossata una rossa”.
Nel quadrilatero dell’adolescenza, Mazzacurati continua a immaginareuncinemaincuiiregistrisi interpolino, i generi si contamininoel’esistenzanonsiannoi:“Senza reinventare tutto da zero morirei. E io voglio vivere. Divertirmi, sperimentare. Almeno un altro po’. Crede che Dio mi darà retta?”.