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 2010  ottobre 18 Lunedì calendario

WALL STREET, TORNANO I BONUS MA STAVOLTA NESSUNO PROTESTA I DEMOCRATICI D’ALTRO CANTO NON VOGLIONO CHE VENGA RINFACCIATO LORO DI AVER AIUTATO TROPPO LE BANCHE RENDENDOLE DI NUOVO SUPERREDDITIZIE I REPUBBLICANI EVITANO DI TOCCARE L’ARGOMENTO PERCHÉ NON VOGLIONO APPARIRE COME I DIFENSORI DELLA PLUTOCRAZIA E POI SENTONO LA VITTORIA GIÀ IN TASCA

Mentre nel resto d’America i valori immobiliari continuano a ristagnare, a New York si è registrato negli ultimi tre mesi un aumento dei prezzi delle case del 7 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. A Manhattan l’incremento è stato addirittura superiore: l’8 per cento. Intanto, lungo Madison, la Quinta e le strade attigue, le vetrine di Bulgari, Chanel, Tiffany, Prada, Gucci e di altri nomi blasonati si preparano al Natale della riscossa. Che succede? Come spiegare queste dinamiche così diverse dal resto dell’America, dove la recessione non è ancora domata e dove prevalgono la disoccupazione e una rabbia diffusa? Certo, a New York si fa sentire di più il ruolo di turisti e capitali esteri che approfittano dello scivolamento del dollaro per lo shopping d’alto bordo o per comprare un pied àterre. Ma la vera ragione dell’anomalia newyorkese è un’altra: Wall Street, il motore economico della metropoli, chiuderà l’anno distribuendo ai suoi dipendenti una pioggia record di miliardi, e il mercato immobiliare, come quello della moda e degli oggetti di lusso, anticipa la bonanza.
Secondo il Wall Street Journal, banche, hedge fund e finanziarie si preparano a battere il livello di compensi dell’anno scorso: sarà il secondo record in due anni. In tutto, tra salari, benefit e soprattutto bonus, le trentacinque maggiori società verseranno ai loro dipendenti 144 miliardi di dollari, con un 4 per cento di aumento rispetto ai 139 miliardi del 2009. L’aumento delle retribuzioni sarà persino maggiore di quello dei redditi complessivi delle 35 società finanziarie, che secondo le prime proiezioni dovrebbero salire del 3 per cento, cioè da 433 miliardi di dollari a 448 miliardi. La previsione di bonusrecord a Wall Street non sta provocando, almeno per il momento, l’ondata di sdegno e le polemiche degli anni scorsi. I motivi? Essenzialmente due: innanzitutto si tratta di dati provvisori, anche se attendibili. Mancano più di due mesi alla fine dell’anno, le banche non hanno ancora completato il complesso iter di definizione dei compensi che riguarda tutti i livelli, dal top management fino al commesso appena assunto. Si è ancora lontani, ad esempio, dal conoscere le cifre emblematiche versate ai chief executive, e su cui di solito si concentrano le critiche, come quei 68 milioni di dollari assegnati nel 2007 al capo della Goldman Sachs Lloyd Blankfein o i 17 milioni finiti l’anno scorso nelle tasche di Jamie Dimon della JPMorgan Chase.
La seconda ragione è politica. Mancano ormai solo due settimane alle elezioni di midterm per il rinnovo di tutta la Camera dei rappresentanti e di un terzo del Senato. E mentre infuria la battaglia e Barack Obama viaggia come una trottola per il paese nella speranza di contenere le perdite annunciate dai sondaggi venerdì era a Filadelfia, sabato a Boston e in settimana andrà in Oregon, Washington, California, Nevada e Minnesota nessuno dei due schieramenti ha una particolare convenienza nel sollevare il tema dei bonus d’oro. I repubblicani non vogliono apparire come i paladini dei plutocrati di Wall Street; i democratici temono di essere accusati di aver fatto troppo per salvare le banche dalla tempesta finanziaria e troppo poco per contenere i superemolumenti; ed entrambi i partiti sperano di raccogliere fino all’ultimo i finanziamenti necessari a una campagna elettorale destinata a battere tutti i record di spesa. Ma è facile previsione che, subito dopo i risultati del voto di midterm, ricomincerà il balletto di accuse e difese.
I critici additeranno il divario tra i compensi nel mondo finanziario (si calcola che i 38mila dipendenti della Goldman Sachs riceveranno in media 500mila dollari, cioè 350mila euro) e quelli nel resto del paese, dove questa interminabile recessione ha costretto i ceti più svantaggiati a stringere la cinghia. Si chiederanno anche che ne è stato dei tentativi di Kenneth Feinberg, lo "zar delle paghe", l’avvocato scelto dalla Casa Bianca per sorvegliare i livelli degli emolumenti. In teoria doveva combattere quel "vizio" di massimizzare utili, compensi e rischi, che tanto contribuì al crac finanziario. In pratica l’azione dello "zar" non ha finora sortito gli effetti sperati.

Alle accuse Wall Street risponderà con il solito ritornello: senza la promessa di compensi adeguati, i migliori executive non hanno esitazioni nel cambiare datore di lavoro. Ma è veramente così? C’è il rischio di una fuga dei cervelli della finanza verso gli istituti più generosi? Non c’è dubbio che negli ultimi due anni gli spostamenti siano stati più intensi del passato, non fosse altro perché dopo il tracollo di Bear Stearns e Lehman Brothers molti banchieri hanno dovuto trasportare altrove i loro scatoloni. È bastato che la Gran Bretagna introducesse una nuova tassa sui bonus, per defezioni di molti dirigenti londinesi della Goldman Sachs e del gruppo Crédit Suisse. Si assiste a una migrazione dalle banche più tradizionali e controllate verso società di private equity ed hedge fund, come Blackstone, Fortress e OchZiff, che non devono sottostare alle nuove limitazioni sul proprietary trading, le speculazioni condotte con mezzi propri, e non dei clienti, e che quindi offrono la possibilità di rendimenti (e bonus) molto più alti.
Wall Street si è sempre considerata una repubblica a se stante, separata per censo e cultura dal resto del paese. Ora torna a rivendicare una piena autonomia salariale, dimenticando gli scandali interni, i fallimenti, le inchieste di Andrew Cuomo, i guai con la Sec e soprattutto di essere stata salvata con i soldi del contribuente americano: anche di quello che a seguito della crisi è stato licenziato dalla catena di montaggio di Detroit o dalla fabbrica di Cleveland. Approfittando di un’annata fortunata, che permetterà loro di incassare 61,3 miliardi di utili, chiudendo così il capitolo nero della tempesta dei subprime, i grandi gruppi di Wall Street hanno accantonato i miliardi da elargire a dirigenti e impiegati ma non tutti si comporteranno allo stesso modo. In media, secondo il Wall Street Journal, le 35 maggiori aziende destineranno il 32,1% dei loro redditi annuali alle retribuzioni: la stessa quota del 2009, ma inferiore a quella del 2007 che fu del 36%. Le percentuali sono molto variabili: a dispetto della megamulta della Sec e della sua immagine offuscata, la Goldman Sachs riserverà il 43% dei redditi alle retribuzioni, per un totale di 16,8 miliardi di dollari; la JP Morgan Chase si accontenterà invece del 28,2%, poco di più del 26,8 versato l’anno scorso.
Alla Morgan Stanley la situazione è più delicata. Nell’assumere il 1° gennaio le funzioni di Ceo, James Gorman aveva promesso agli azionisti che il rapporto compensireddito aveva raggiunto nel 2009 un tetto invalicabile. La percentuale sfiorava infatti il 62%, garantendo a Gorman un bonus di 8,1 milioni in azioni della società. Questa volta la quota dovrebbe scendere al 49%. I maggiori scatti si registrano comunque nel settore del private equity e negli hedge funds. Il monte salari al gruppo Blackstone guidato da Stephen Schwarzman salirà quest’anno del 12%; al gruppo Fortress l’aumento sarà del 29. Qualche tabloid comincia già a ironizzare sui bonusrecord dando qualche consiglio ai giovani della finanza: "Non spendetevi tutti i soldi nei concessionari della Ferrari". Ma al di là dello scherzo, non c’è dubbio che la pioggia di miliardi contribuirà ad accelerare la ripresa economica di New York e, inevitabilmente, ad accentuare il divario tra la metropoli e il resto dell’America, dove i danni della recessione non accennano ancora a scomparire.