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 2010  ottobre 17 Domenica calendario

MARIPOL, REGINA NEL REGNO DEL LOOK

Senza Maripol avremmo avuto Madonna, ma non le madonnare. Senza Maripol il crocefisso sarebbe rimasto appeso alla catenina e non ingigantito, ostentato, dissacrato da una bionda pop singer, Marilyn di fine millennio, che lo lasciava ciondolare sopra l´ombelico scoperto. «Senza di me Madonna non sarebbe neanche stata bionda», esclama in un italiano quasi perfetto l´artista francoamericana che aiuta gli artisti a diventare icone pop. «La scelta dell´immagine di Like a virgin (1984) fu travagliata», ricorda. «I discografici pensavano a una vergine mora, labbra rosse, una vampira latina. Le dissi: "Non se ne parla, ti fai chiamare Madonna, chi crederà che sei vergine? Semmai dovrai dare l´idea di una che vuole rifarsi una verginità"». Così nacque il mito di un´altra Madonna, prepotente e trasgressiva, seconda per popolarità solo alla Vergine. E fu Maripol Fauque che architettò il look.
«Gli americani sono come agnelli, se sei un trascinatore ti seguono in massa», dice spavalda Maripol, che da sempre vive nel quartiere di NoHo, quadratino di Manhattan caro al suo «fratellino» Jean-Michel Basquiat, e il 21 ottobre pubblica Little Red Riding Hood (Damiani Editore), un volume che illustra la sua storia di art director, stilista e produttrice alla corte di Andy Warhol ed Elio Fiorucci, Grace Jones e Deborah Harry, Elton John e Cher, Madonna e Keith Haring. E Marc Jacobs, stilista e direttore creativo di Louis Vuitton, che ha partecipato alla realizzazione del libro.
Maripol arrivò a New York nel 1976 con il compagno Edo Bertoglio, un fotografo svizzero con il quale avrebbe poi realizzato Downtown 81, un film su Basquiat. «Avevo vent´anni. Eravamo partiti con l´idea di restare tre mesi. Già allora ero una zingara, la mia famiglia era sempre vissuta fuori dalla Francia - io sono nata in Marocco - e l´idea di patria neanche mi sfiorava. Quando scoprii New York mi sentii una pioniera, tornai a casa a solo dopo nove mesi. D´improvviso la vecchia Europa mi sembrò pigra e sonnolenta. Insopportabile per una che aveva conosciuto la travolgente energia creativa di Manhattan». Non era più la New York della Factory di Andy Warhol. Dopo la sbornia dell´underground, la Grande Mela celebrava la sua decadenza a ritmo di disco. Era una metropoli in bancarotta, pericolosa, piena di tossicodipendenti e di spacciatori anche in Union Square. «Una nuova droga, la cocaina, stava conquistando la città e in breve ne avrebbe cambiato il ritmo di vita e il beat», conferma Maripol. «Ma c´erano anche le più belle feste del mondo, allo Studio 54 e non solo. Per la prima volta divi, artisti, etero, gay, transgender e persone qualunque facevano baldoria e si rimorchiavano negli stessi locali. Chi l´ha detto che l´abito non fa il monaco? Allo Studio 54 se non indossavi quello giusto non riuscivi neanche ad entrare. Quando aprì i battenti, nel 1977, c´era una stanza in cui Oliviero Toscani scattava foto per Vogue Italia. Davanti al suo obiettivo ci finii anch´io, con una gonna di raso nero che mi ero confezionata per l´occasione».
Intanto un manipolo di artisti ingegnosi cominciavano a contrastare la disco con un suono aggressivo e disfattista. La new wave newyorchese di Talking Heads e Blondie, James White e Wayne County non era meno potente del punk inglese dei Sex Pistols e dei Clash. La poetessa Patti Smith e il fotografo Robert Mapplethorpe crearono una magica sinergia, prima che lei diventasse un´icona rock e lui l´idolo delle gallerie d´arte di SoHo. Nella fertile follia che ogni sera albergava in locali come Mudd Club, Club 57, Palladium e Danceteria, Maripol trovava ispirazione per le sue aggressioni alla moda. «La svolta arrivò a ventiquattro anni, quando incontrai Elio Fiorucci. Mi mise in mano un biglietto aereo per il giro del mondo e mi disse: "Torna con delle idee, inventa collezioni"».
«La prima volta che misi piede nella boutique di Fiorucci a New York avevo quindici anni ed ero completamente pazzo», racconta Marc Jacobs, «ma già conoscevo Maripol. Non era solo una boutique, ma un posto dove incontrarsi». Percorsi paralleli che si sarebbero incrociati solo decenni più tardi quando Jacobs, ormai star della moda, le avrebbe commissionato una serie di accessori da mettere in vendita nelle boutique del Village. Nel 1981 Maripol incontrò il fotografo Jean-Paul Goude che le affidò lo styling del volume fotografico Jungle Fever, protagonista Grace Jones. «C´era anche una mia foto in cui me la lecco. Gli ho chiesto il permesso di usarla in questo libro, mi ha risposto che è troppo scandalosa. Che noia. Stiamo ridiventando puritani», protesta Maripol. Tra i cimeli che conserva, c´è la copertina del primo album di Madonna con la dedica: «Maripol sei il più perverso surrogato di madre che io abbia mai incontrato». Louise Veronica Ciccone, orfana di madre, era arrivata dal Michigan a New York senza una lira, ma al contrario di Maripol con molte aspettative. Non si perdeva una festa al Danceteria e, già intrigata dal maschio latino, flirtava con il dj John Jellybean Benitez, mentre la Lower Manhattan postpunk diventava il teatro dei primi graffitari, Haring e Basquiat, i nuovi pupilli di Warhol. Madonna entrò prepotentemente in scena dalla porta del pop. Era già una diva quando la regista Susan Seidelman la chiamò a interpretare il ruolo di protagonista in Cercasi Susan disperatamente (1985). Sul set si scatenò l´inferno. «Madonna sta cambiando completamente la sceneggiatura», protestò la coprotagonista Rosanna Arquette. Maripol metteva benzina sul fuoco. «Fui io che "ordinai" a Madonna di intervenire sulla sceneggiatura e, soprattutto, sui costumi», precisa. «"È un´occasione unica", le dissi, "non puoi sprecarla". E così tutto il guardaroba, accessori compresi, fu rifatto. Madonna è una che ascolta, è intelligente, sa di chi fidarsi».
Il pubblico lo ignorava ma quelli dell´immigrazione sapevano bene che croci e provocazioni erano tutta opera di Maripol, e più di una volta le rifiutarono il visto d´ingresso. Nel 1986 Andy Warhol la raccomandò al Bureau of Immigration and Naturalization con una lettera: «Maripol è una disegnatrice di talento che ormai è parte integrante della scena artistica e del fashion business di New York City». «Anche Madonna ne inviò una dettagliatissima», aggiunge Maripol, «ma dovetti comunque rivolgermi a uno studio legale quella volta che non volevano farmi rientrare dalle Bahamas. Quando finalmente riuscii a rimettere piede nel mio studio, scoprii che le collaboratrici mi avevano scippato di tutto, soldi, clienti, idee. Finii in bancarotta e ricominciai da freelance. Per fortuna arrivò l´esplosione della videomusica a salvarmi il culo».
Oggi la stilista che ha attraversato col suo "Maripolitan style" la New York del Paradise Garage e del CBGB, della dance fever e degli anni in cui gli amici se ne andavano uno a uno in una malinconica sinfonia degli addii (Warhol morì nel 1987, Basquiat nel 1988 per overdose, Haring due anni dopo di aids), continua a credere nel potere creativo di Manhattan. «Ora New York se la giocano le nuove generazioni», conclude. «Io scommetto su mio figlio, Lino Meoli, che è già un dj affermato. Ha vent´anni, biondo, occhi azzurri come suo padre, che è di origini napoletane. Bellissimo. Noi abbiamo costruito le fondamenta, adesso tocca a loro edificarci sopra».