GIANCARLO DE CATALDO, la Repubblica 17/10/2010, 17 ottobre 2010
QUEI TERRONI BARBARI DA "ABBRUCIARE VIVI"
«Tolta la dolcezza del clima e le bellezze naturali, questi paesi sono orrendi in tutto e per tutto: gli abitanti sono gli esseri più sudici che io abbia mai visto; fiacchi, stupidi e per di più con un dialetto che muove a nausea tanto è sdolcinato...». Così Carlo Nievo, fratello del più celebre Ippolito, scrive al padre nell´inverno del 1860. Lo stesso Nievo che, da Sessa Aurunca, si augurava: «Dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti; che razza di briganti!». Soltanto un paio d´anni dopo, alcuni brillanti alti ufficiali piemontesi si incaricheranno di tradurre in opera il suo auspicio. Spiccheranno, fra costoro, il generale Pinelli, specialista in esecuzioni di massa di briganti o sedicenti tali; Pietro Fumel, particolarmente appassionato di finte fucilazioni; Gustavo Mazé de la Roche, uso a trucidare i prigionieri e a considerare «uno smacco» le (rare) scarcerazioni di evidenti vittime di arresti arbitrari. A rileggere le "imprese", se così si può dire, dei militari dell´esercito neounitario si viene colti da una crisi di rigetto per lo stereotipo degli "italiani brava gente".
A Pontelandolfo e a Casalduni, come notava acutamente lo storico Roberto Martucci nel suo fondamentale L´invenzione dell´Italia unita, si stava dalle parti del genocidio degli indiani d´America, fra un film di Sergio Leone e un´elegia di Tex Willer/Aquila della Notte. Il fatto è che Fumel e compagnia agiscono, militarmente, su un terreno che, nei primissimi mesi dall´Unità, è stato arato, sul piano, per così dire, culturale, dall´intellighenzia nordista. I Nievo (anche Ippolito, nel suo diario al seguito dei Mille, è tutt´altro che tenero coi «terroni»), i Farini, i Visconti-Venosta reputano da subito il Sud, e le sue genti, un´Africa popolata da barbari irredimibili. Gente da colonizzare. L´argomento legato al malgoverno borbonico, in realtà responsabile primo del degrado delle campagne, viene presto abbandonato a favore di una lettura in chiave di inferiorità etnica. È, in presa diretta, la nascita della teoria delle due Italie: l´operosa, europea celtica gente che s´attesta sin sul Tronto contrapposta ai barbari del meridione. Sarà il sociologo lombrosiano Alfredo Niceforo a conferire dignità scientifica a questa teoria.
Così come si può collocare a quel tempo la prima delle ricorrenti "guerre" fra potere politico e magistratura: con i proconsoli di Rattazzi a invocare pene esemplari e i giudici a spaccare il capello in quattro nell´assurda - agli occhi di Torino - pretesa di dividere gli innocenti dai colpevoli. È in questo clima che Ottaviano Vimercati, il quale da esule aveva combattuto in Algeria, scrive a un amico: «Gli Arabi, che combattevo quindici anni fa, erano un modello di civiltà e di progresso in confronto a queste popolazioni […] non potresti farti un´idea delle barbarie e del vero abbrutimento dei paesani di qui». Per poi concludere, pragmaticamente, che l´annessione del Sud sarebbe bene considerarla un´eredità da accettare col beneficio dell´inventario, e cioè tenendosi la terra e buttando a mare i terroni. Nasce da qui, da questo fertile humus immediatamente disgregante, il surplus di sadismo che sembra, a volte, trasparire dai dispacci in zona d´operazioni?
Intendiamoci: il brigantaggio c´era, e fra i briganti v´erano gentiluomini capaci di divorare crudo il cuore di un soldato nemico. Gli agenti provocatori borbonici soffiavano sulla rivolta. E preservare l´Unità era, prima che un dovere, una necessità. Ma a che prezzo? Poche, ma coraggiose, furono le voci di protesta: venivano dai soliti mazziniani e socialisti, dalla sinistra di sempre, insomma. Come sempre votata alla sconfitta, quella sinistra non riuscì ad arginare massacri e atrocità che, in nome di una terribile Realpolitik, acuirono il solco già esistente fra le due Italie. Ne portiamo ancora il segno, non foss´altro perché nessuno ha ancora chiesto perdono per quei morti innocenti.