FEDERICO RAMPINI, la Repubblica 17/10/2010, 17 ottobre 2010
NUOVI ITALIANS D’AMERICA
Philip Roth e Woody Allen c´insegnano: quando una minoranza come gli ebrei può prendersi in giro senza complessi nella patria del politically correct, è una prova di forza. È quello che rivela sugli italoamericani il fenomeno "Guido", l´appellativo lanciato dal reality-show Jersey Shore di Mtv. È una sorta di Grande Fratello, mette in scena otto ventenni italoamericani che sono caricature estreme: volgari e maneschi, maschi dai petti villosi e catene d´oro, femmine ultradotate, abbronzature da spiaggia. Eppure lo storico Robert Viscusi del Brooklyn College applaude: «"Guido" (come vengono chiamati indistintamente le italo-macchiette, ndr) è un fenomeno interessante. Proprio perché l´ascesa sociale degli italoamericani è una solida realtà, il potere di questo appellativo va esaminato». Esibire gli stereotipi etnici è un fenomeno che viene da lontano: la senatrice di Brooklyn Diane Savino lo fa risalire al successo di John Travolta (alias Tony Manero) ne La febbre del sabato sera, anno di grazia 1977. Brillantina, pantaloni aderenti, giacca bianca, un certo modo di corteggiare: poteva essere tragicomico. «Invece per noi era semplicemente sexy - ricorda la Savino - fu una rivelazione per l´orgoglio italoamericano», finalmente affrancato dal modello estetico anglosassone.
Quella è la proto-storia. Da quel momento in poi l´ascesa del potere italoamericano è diventata irresistibile, un crescendo travolgente. Fino alla consacrazione finale sotto il primo presidente afroamericano. Curiosamente, con Obama non c´è stata una scalata ai posti di potere da parte della élite nera. Se c´è un gruppo che si è impadronito delle leve del potere, sono i "nostri". Quando il Washington Post ha pubblicato la mappa dei «ristoranti del potere» nella capitale federale ha messo in cima la Tosca di Paolo Sacco, per via dei suoi habitués: il capo della Cia Leon Panetta, l´ideologo del partito democratico John Podesta (sempre al tavolo 60). Dopo i vari rimpasti che Obama ha compiuto nella sua squadra in vista delle elezioni di novembre, molti fedelissimi sono stati costretti a lasciare, ma tutti gli "italo" restano ai loro posti di comando: Janet Napolitano a capo del superministero Homeland Security, Jim Messina vicecapogabinetto del presidente, Thomas Perelli tra gli uomini chiave alla Giustizia. Tra una settimana si ritroveranno tutti al gala annuo della National Italian American Foundation (Niaf), diventata l´associazione "etnica" con la più alta concentrazione di vip al suo interno. Certo, questa potrebbe essere l´ultima apparizione al gala Niaf di Nancy Pelosi in quanto presidente della Camera. Ma se la più potente donna del partito democratico dovesse perdere quel posto a novembre, sarà a causa di un´ondata di destra che porterà al Senato l´italoamericana Carly Fiorina (ex chief executive di Hewlett-Packard). Il potere degli italoamericani non è in discussione. Semmai nella geografia interna alla Niaf tornerà in auge l´ala destra, dove troneggia il giudice della Corte suprema Antonin Scalia, temporaneamente oscurata dall´ascesa recente degli italo-obamiani.
L´onnipresenza politica dei discendenti di immigrati italiani è una conquista straordinaria, tutt´altro che scontata. Appena una generazione fa gli handicap erano insormontabili. I leader storici della nostra comunità d´immigrati sembravano condannati a fermarsi a livello locale, dove potevano mobilitare delle enclave di voto etnico. Non a caso le figure più importanti a lungo furono quelle dei sindaci: Fiorello La Guardia a New York negli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale, George Moscone a San Francisco, Thomas D´Alesandro (il padre della Pelosi) a Baltimora. Se provavano a innalzarsi sopra quel livello, scattava una maledizione. Cominciavano a circolare voci su veri o presunti legami familiari con la mafia. Sono le voci che perseguitarono a lungo Geraldine Ferraro, prima candidata donna alla vicepresidenza con Walter Mondale.
Sospetti e veleni etnici infierirono anche contro Mario Cuomo, protagonista di una carriera folgorante nel partito democratico negli anni Ottanta e Novanta, padre dell´attuale candidato governatore di New York. In un celebre episodio del 1992, Cuomo senior fece aspettare un jet che doveva decollare per il New Hampshire: al culmine della popolarità, era sul punto di lanciarsi nella corsa alla nomination presidenziale. Rinunciò, in preda a mille dubbi, e da quel momento divenne per la stampa «l´Amleto dell´Hudson». La vulnerabilità di un candidato italoamericano non fu estranea a quel ritiro. Mario Cuomo aveva subìto sulla sua pelle troppe discriminazioni per sottovalutare il rischio. Da giovane, pur essendo uno dei più brillanti avvocati di New York, si era visto sbattere in faccia la porta di tutti i grandi studi legali, per via di quel cognome. L´italianità lo aveva perseguitato anche al contrario, come una sorta di obbligo; più volte a messa gli venne rifiutata la comunione, per le sue posizioni in favore del diritto di aborto. Oggi molto è cambiato anche nelle identificazioni religiose; è una non-notizia il fatto che Janet Napolitano sia protestante metodista. Andrew Cuomo ricorda quanto gli stereotipi furono dolorosi per suo padre: «Era un modello di eleganza, discrezione, stile, e gli toccava esibirsi sul palcoscenico della politica negli stessi anni in cui gli italo-americani erano dei cafoni o dei banditi mafiosi in tutti i film». Lui, Andrew, non ha questi problemi. Dopo essere passato attraverso un matrimonio e un divorzio con Kerry, figlia di Bob Kennedy, è stato sdoganato nella cerchia familiare più aristocratica della politica americana.
Per questo prodigioso cambiamento una parte del merito va a una figura oggi al tramonto: Rudolph Giuliani, prima ancora di essere il sindaco dell´11 settembre, da magistrato fu protagonista di una formidabile offensiva contro le organizzazioni mafiose di New York. Dopo Giuliani un cognome così ha smesso di essere associato con la parte sbagliata, nella guerra tra guardie e ladri. Più in generale gli italoamericani raccolgono anche nella politica i frutti di quella formidabile «ascesa sociale» evocata dallo storico Viscusi. Un tempo dalle fila della nostra emigrazione uscivano pugili come Primo Carnera e Rocky Marciano, campioni di baseball come Joe di Maggio: le star dei poveri, come lo sono oggi i campioni neri. Adesso è più facile trovare un italoamericano al vertice dell´Ibm, il chief executive Sam Palmisano. In California l´immigrazione tosco-ligure-piemontese aveva già colonizzato il vino con le famiglie Gallo e Mondavi, la banca con Amadeo Giannini, ma adesso è nell´industria informatica della Silicon Valley la massima aggregazione di talenti immigrati di prima, seconda e terza generazione.
Il cinema, sempre un misuratore sensibile del costume, ha visto passare la fiaccola dell´italianità dalle mani di Sylvester Stallone a quelle di personaggi raffinati e post-moderni come Quentin Tarantino e Sofia Coppola. Un altro segnale indicativo è il cambiamento avvenuto nella gastronomia, sempre una dimensione importante dell´immagine italiana. Qui si è passati dalla cucina etnica di Little Italy a New York e North Beach a San Francisco, quella dei trucidi "spaghetti and meatballs", alla nouvelle cuisine mediterranea di grandi chef di grido come Mario Batali e Lidia Bastianich, alla testa di un impero fatto di ristoranti di lusso. È grazie a questa evoluzione spettacolare, che oggi ci si può permettere di ridere davanti ai Guido del reality-show Jersey Shore. O addirittura appropriarsene come un simbolo positivo. È la sottile operazione fatta da Carl Paladino, l´avversario repubblicano di Andrew Cuomo nell´elezione a governatore dello Stato di New York. In quella sfida tutta giocata tra italoamericani, Paladino recita la parte dell´oriundo vecchio stile: le parolacce, gli insulti ai gay, perfino le minacce di violenza fisica. Non c´è stereotipo che non gli piaccia, si direbbe: a Cuomo lui rimprovera di «non essere un vero italiano». Superata l´èra di The Sopranos, il politico che fa il verso ai Guido usa la cafoneria per corteggiare i colletti blu, il ceto mediobasso, i frustrati della grande crisi. Anche gli italoamericani hanno il loro Tea Party, anti-tasse, anti-Stato e anti-Obama: per farne parte bisogna tingersi i capelli, cospargerli di gel, e rimorchiare in discoteca ragazze più "abbondanti" di Sophia Loren e Gina Lollobrigida negli anni Cinquanta.