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 2010  ottobre 17 Domenica calendario

LA DURA DI BUSH SOCCORRE OBAMA SULL’AFGHANISTAN

Il sostegno degli americani per la guerra in Afghanistan non è mai stato tanto basso. La più recente rilevazione condotta dalla Cnn in collaborazione con l’Opinion Research Corporation found ha registrato che solo il 37% degli intervistati ha espresso il suo favore alla continuazione della missione, mentre una maggioranza, il 52%, pensa che il destino di questa guerra sia un altro Vietnam.
Obama ha in mano le sorti del conflitto, ma è la sua contraddittoria gestione che sta rendendone problematica la continuazione, per non parlare della vittoria. Prima di essere letto il presidente ha detto che era “la guerra giusta”, ed era indispensabile combatterla per sradicare Al Qaeda e i Talebani e garantire la sicurezza dell’America e dell’Occidente. Una volta al-la Casa Bianca impiegò quasi un anno in laceranti discussioni interne al suo gabinetto prima di accordare, lo scorso dicembre, i 30mila soldati in più chiesti dal suo stesso generale Stan McChrystal (che in realtà ne voleva 40mila).
IL PIANO
Quando varò il piano di rafforzamento, nello stesso tempo disse che dal luglio 2011 sarebbe però iniziato il ritiro delle truppe, dando quindi una scadenza al suo impegno, che è come dare al nemico il massimo vantaggio strategico. Il perché di quella data è apparso chiaro a tutti: da una parte blandire la sua forte ala di sinistra; e d’altra parte creare in America le condizioni migliori per la sua propria campagna elettorale del 2012.
Ovviamente, le titubanze e i calcoli della Casa Bianca non possono che alimentare scetticismo nell’opinione pubblica: se il primo a non crederci è il comandante in capo, perché dovrebbero avere fiducia i cittadini? Gli americani le guerre le vincono o le perdono in casa propria, è sempre successo così. Il primo conflitto è tra il governo e la gente: il presidente deve esercitare la leadership necessaria a far capire le ragioni della guerra, ma se e quando il numero delle vittime sale e fiacca la resistenza psicologica delle famiglie, un capo di stato dalle salde convinzioni sulla necessità di tenere duro, come fecero Bush e Blair in Iraq, non può piegarsi ai sondaggi e mettere davanti a tutto la propria sopravvivenza politica.
Per Obama, a questo rischio di cedere ai numeri severi della Cnn si aggiunge la sua ideologia di sinistra più incline al pacifismo e all’appeasment. In questo senso, che la gente evochi il Vietnam è fin troppo giusto. Come allora, non è l’esercito Usa sul campo che sta perdendo, ma l’incapacità della dirigenza politica a Washington di vincere politicamente.
Il generale David Petraeus sta facendo la sua parte: le offensive sono aumentate da quando ci sono più truppe, e nel solo mese scorso ci sono stati 700 attacchi aerei contro i 257 di un anno prima. Negli ultimi tre mesi, le forze della Nato hanno ucciso 300 operativi di livello “senior” tra i Talebani ed altri leader e comandanti, oltre a 800 combattenti senza gradi. E più di 2.000 nemici sono stati catturati nei raid. Sono numeri positivi, che mostrano i primi successi della stessa strategia della surge che permise a Bush-Petraeus di scompaginare i quadri dei ribelli sunniti e di Al Qaeda in Iraq. Ma il problema è che, mentre Bush diceva che l’unica opzione era
vincere e che il tempo era una variabile dipendente, Obama il prossimo dicembre dovrà dire al Congresso che cosa ne sarà della data del luglio venturo come termine dell’impegno serio americano. Se darà l’ok a un ritiro tra sei mesi, in pratica è come se facesse già partire il conto alla rovescia. Sarebbe come evocare la scena dell’ultimo elicottero Usa che lascia l’ambasciata in Vietnam, ciò che trasformò le tante vittorie sul campo contro il Nord, non sostenute in patria, in una disfatta che ancora oggi scalda il cuore di tutti i nemici dell’America. Obama non può non aver presente lo scenario, e sa che c’è una cosa peggiore di essere un presidente che si ricandida alla Casa Bianca mentre i suoi marines muoiono lontano da casa: è l’essere un presidente che
perde una guerra, soprattutto se ha detto che era “giusta”.
L’INCONTRO CON LA RICE
C’è da sperare che sia per trovare conforto e consigli dall’esperienzadellaguerravintainIraqdal suo predecessore che Obama, oltre ad aver tenuto lo stesso ministro della difesa Robert Gates e lo stesso comandante David Petraeus, ha invitato ieri alla Casa Bianca Condi Rice, prima consigliera per la sicurezza e poi segretario di stato di Bush. Anche se l’occasione è stata il dono, al presidente e alle sue due bambine, del libro di memorie giovanili appena pubblicato dalla Rice, l’incontro è servito per scambiare opinioni sulla missione afgana attuale.
Fonti ufficiali si sono affrettate a negare che Obama abbia offerto
un ruolo di governo alla prima donna nera ad essere stata un ministro degli esteri americano, ma è in atto un tale rimescolamento dei quadri di alto rango nello staff presidenziale, che se le prossime elezioni consegnassero ai Repubblicani il controllo della Camera e del Senato potrebbe aver senso, in una chiave bipartisan, trovare un ruolo formale, o anche solo informale, per la Rice. A differenza del vice di Bush, Dick Cheney, Condi non ha mai espresso pubbliche critiche o fatto attacchi di sorta ad Obama, seguendo un alto profilo da statista che è stato, finora, lo stesso tenuto da Bush. Obama sta andando a picco nei sondaggi, e qualcosa di bipartisan dovrà pure inventarsi se vuole sperare di riconquistare il centro moderato, pragmatico e patriottico.