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 2010  ottobre 16 Sabato calendario

IL PANE BUTTATO


Oggi la Fao ci dirà quante donne e uomini sono denutriti e sottoalimentati. Probabilmente la cifra sarà tornata sopra il miliardo, come già annunciato da un enorme striscione appeso sulla facciata della sede a Roma. E la Fao ci dirà anche quanti bambini muoiono ogni giorno (anzi, ogni minuto) per fame. Oggi, infatti, è la «Giornata mondiale dell’alimentazione»: una ricorrenza che per un giorno ci farà sentire tutti un po’ in colpa, anche se le colpe maggiori sono dei governi dei paesi ricchi che centellinano gli aiuti ai paesi del quarto modo. O più spesso utilizzano gli aiuti alimentari per eliminare le eccedenze agricole. Ma colpa un po’ anche della Fao che spreca montagne di soldi per mantenere la sua faraonica burocrazia.
Ma c’è un altra faccia del dramma della fame e della malnutrizione: quello dell’eccesso di nutrizione di centinaia di milioni di persone e, soprattutto, lo spreco di risorse alimentari che si fa in tutto il mondo. Meno di una settimana il 10 ottobre, sei giorni prima della «Giornata dell’alimentazione» di oggi, c’è stata una «Giornata» dedicata all’obesità: la popolazione mondiale in sovrappeso è di un miliardo (stessa cifra di chi fa la fame) e di questi circa 300 milioni sono gli obesi. E, dato più interessante, contrariamente a quanto molti credono, gli obesi stanno aumentando vertiginosamente non nei paesi industrializzati, ma soprattutto nelle economia in via di sviluppo, non solo nelle zone urbaniste. Che significa tutto questo? Purtroppo che il peggior modello di consumo (e di vita) dei paesi industrializzati sta diventando veramente globale. Complessivamente 2 miliardi di persone (un terzo della popolazione mondiale) non mangia, mangia poco oppure mangia male e troppo. Ma c’è di più: miliardi di persone sprecano cibo che con una gestione più accorta basterebbe a sfamare chi ha problemi di alimentazione.
I dati sono impressionanti. Negli ultimi 35 anni lo spreco alimentare nel mondo è aumentato del 50%. Negli Stati uniti il 25% degli alimenti perfettamente commestibili viene distrutta, incenerita. Calcolando una spesa campione di 42 dollari, 14 vengono spesi per l’acquisto di prodotti non necessari. Ma non sono solo gli Usa (patri degli obesi) a sprecare cibo. In Gran Bretagna ogni anno si gettano 6,7 milioni di tonnellate di cibo ancora consumabile con uno spreco di 10 miliardi di sterline. In Svezia in media ogni famiglia getta il 25% del cibo acquistato.
Non va meglio in Italia: lo spreco di prodotti alimentari ancora commestibili ammonta - sostiene Andrea Segré, Preside della Facoltà di Agraria e presidente di Last Minute Market con sede nella opulenta Bologna - a 20 milioni di tonnellate, pari a un valore di mercato di 37 miliardi di euro, il 3% del Pil. Con questo cibo sprecato potrebbero mangiare 44 milioni di persone. Di più. Aggiunge Segré: ogni anno finiscono delle discariche o negli inceneritori il 19% del pane; il 4% della pasta. E ancora: il 39% dei prodotti freschi come Latte, uova, carne, mozzarella, yoghurt e il 17% della frutta e della verdura. Tutto questo ha un costo economico non indifferente: ogni nucleo familiare getta via ogni anno 515 euro in prodotti alimentari, oltre il 10% della spesa mensile che ammonta in media a 450 euro. Evidente che se proiettiamo le cifre italiane e quelle statunitensi su scala globale (cioè gli sprechi alimentari comuni a tutti i paesi sviluppati) otterremmo una quantità di cibo sufficiente a eliminare le carenze di cibo tra la popolazione mondiale affamata. Come si può fare?
Non è facile, ma bisogna provarci. «Un anno contro lo spreco 2010» è una campagna promossa da Last Minute Market e dalla Facoltà di Agraria assieme al Parlamento europeo con lo scopo - apparentemente limitato - di sensibilizzare l’opinione pubblica e cercare di ridurre lo spreco di almeno il 50% entro il 2025. «Trasformare lo spreco in risorsa» è il tema di una Conferenza che si terrà a Bruxelles nel Parlamento europeo. E nella sede del Parlamento sarà offerto un pranzo antispreco, cucinato (da cuochi famosi) con cibo di recupero: prodotti agro-alimentari perfettamente edibili, ma destinati a essere distrutti perché non esteticamente perfetti. In base a un malinteso principio che «anche l’occhio vuole la sua parte».
Sabato 30 ottobre sarà la volta di Bologna. Sarà presentato il «Libro nero dello spreco alimentare in Italia» e sarà assegnato il «premio non sprecare» che dovrebbe essere assegnato - secondo le ultima indiscrezioni - a Don Ciotti. Poi, tutti a tavola. A Palazzo d’Accursio un pranzo simile a quello di Bruxelles, cucinato con i prodotti invenduti nella filiera agro-alimentare raccolti dalle organizzazioni Last minute market che recuperano cibo per gli indigenti.
E’ stato calcolato che la distribuzione al dettaglio italiana (l’ultimo anello di una catena che parte dai produttori agricoli, dalle organizzazione dei produttori, dall’industria e dai centri agroalimentari) ogni anno spreca oltre 244 mila tonnellate di prodotti alimentari, il 40% dei quali sono prodotti oritofrutticoli. Il valore totale (calcolando un prezzo medio di 3,8 euro al kg.) si aggira sul miliardo di euro. Recuperando questi alimenti sarebbe possibile dar da mangiare (tre pasti al giorno) a 636 mila persone (l’equivalente di una città come Genova) e su base annua sarebbe possibile recuperare 580 milioni di pasti.
Alcune catene della grande distribuzione hanno aderito alla campagna di recupero degli alimenti che finiscono al macero. Altri, invece, più disinvoltamente (come ci dicono le cronache) modificano la data di scadenza. Però il problema rimane. E forte nella fase di produzione e distribuzione degli alimenti, ma su questo versante si può fare molto perché la collaborazione non manca. L’anello debole è, però, il comportamento individuale, la frenesie consumista (che diventa spesso un comportamento compulsivo) alimentata frequentemente dalle imprese. Sconfiggerlo non è facile: è una questione di educazione (quella alimentare è scarsa) cultura, solidarietà e civiltà. I «vecchi» dicevano: «si mangia per vivere, non si vive per mangiare». Forse dovremmo riscoprire un vecchio/nuovo modello di sviluppo, diverso dall’attuale.