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 2010  ottobre 16 Sabato calendario

1848, MIRACOLO A MILANO. LA CACCIATA DEGLI AUSTRIACI

Congresso di Vienna, 1815. La Yalta di allora riconsegna l’Europa ai principi «legittimi» e la penisola al controllo dell’Austria. Per tener sotto gli Italiani, l’Imperatore ha il controllo diretto del Regno Lombardo-Veneto, familiari sul trono di Toscana, Modena, Parma, parentele - per quel che valgono nozze, fratellanze e cuginanze nella politica dei sovrani - con i Savoia in Piemonte e i Borbone nelle Due Sicilie; le truppe della Santa Alleanza sono poi pronte a un cenno del Papa-Re, ove non bastino le sue. Inoltre, caserme e fortezze - il famoso Quadrilatero: Verona, Peschiera, Mantova, Legnago - che presidiano la pianura padana, così adatta alle battaglie che da secoli gli altri vengono a fare nel «paese delle rovine», abitato da un imbelle «popolo di morti».
Le grandi famiglie aristocratiche, serbatoio usuale di ceto dirigente, devono scegliere. L’ Ancien Régime ripristinato restaura e santifica - lo vuol Dio (poco importa se cattolico, protestante o ortodosso) - non solo il potere del Sovrano, ma la gerarchia sociale. E allora, a Milano e altrove, cosa fare, se si è marchesi e conti? Continuare a produrre ministri, alti funzionari e generali al servizio del sovrano di turno, o mettersi in proprio? La buriana del «nuovo che avanza», dalla Francia, in vesti rivoluzionarie o napoleoniche, ha trovato freno; non si potrebbe, senza retrocedere del tutto, avanzare a piccoli passi? Il Risorgimento italiano, decollato a fine Settecento con le repubbliche e il Tricolore rivoluzionario, riparte così con la prudenza e la circospezione insite, oltre che nelle classi possidenti che lo innescano, nel nome prescelto, per esempio, per la rivista Il Conciliatore. Allude a una conciliazione fra «classici» e «romantici», ma dà il tono. Eppure le autorità imperiali sentono lo stesso puzza di bruciato. Quei nobili signori dai grandi e tradizionali cognomi milanesi perché si fanno editori, invece che starsene chiusi nei loro club esclusivi e nelle loro ville in campagna? Fanno dunque politica, o meglio - come la denominano gli inquirenti - antipolitica: perché, s’intende, di politica ce n’è una sola, quella al servizio di Sua Maestà Imperiale. Così finiscono sotto processo, condannati a morte, poi graziati. E si capisce: l’autorità regale si duplica, quando condanna e quando grazia. Si mobilitano per questo le reti di soccorso aristocratiche, magari le loro mogli, che sono pur sempre di casa a corte. Teresa Casati, sposa di Federico Confalonieri, va e viene fra Vienna e Milano, interpretando questo ruolo così «femminile». Commutata la pena di morte, il carcere dello Spielberg entra sinistro nell’immaginario dell’Italia che si viene facendo. La forca, il carcere, l’esilio unificano oppressi e martiri, parole d’epoca. Silvio Pellico, l’intellettuale piemontese spostatosi a Milano quando Milano è la capitale della cultura e il luogo di un sia pur schermato dibattito, aderisce profondamente a questa idea «conciliatrice»; Le mie
prigioni (1832) sono tutto un singhiozzo e un indiscriminato abbraccio, a commissari, secondini, giudici. Vittorio Foa e Massimo Mila, nelle carceri fasciste, si preoccupano di non diventare come lui, assumendo come antimodello Felice Orsini (quello delle bombe). Ma tant’è: nel linguaggio sentimentale dei romantici e con la paura diffusa che il moto nazionale debordi in moto sociale, finendo per somigliare alla Rivoluzione Francese (è l’assillo di un altro grande milanese, Manzoni, cantore di un rinnovamento assennato), le cristianissime Mie prigioni sembrano fatte apposta per dare garanzie che i patrioti sono in fondo persone dabbene.
Il ’48 è tutt’altra cosa. Qui si mobilita il popolo milanese. Chi si è fissato con il carattere elitario del Risorgimento deve girare alla larga dalle Cinque Giornate di Milano. Barricate in tutte le strade: un po’ servono davvero contro i colpi e a ritardare il passo della cavalleria; un po’ chiamano ed esprimono partecipazione; chiunque può portar materiali utili, dalle cantine, dalle soffitte, dai piani alti. Borghesi e popolani uniti nella lotta, con gli aristocratici, di preferenza, a fare il doppio gioco in Comune, sperando che - se vanno via gli Austriaci - arrivino presto i Piemontesi. Perché se no quel Cattaneo, la mente politica delle barricate, gli combina la repubblica. E repubblica, nell’Ottocento - che oltre a San Marino e… agli Stati Uniti d’America ne conosce poche - è sinonimo di caos. La città, la repubblica, le autonomie, una federazione di repubbliche rispettosa delle differenti storie d’Italia: il progetto di Cattaneo è ancora più avanzato di quello repubblicano unitario di Mazzini; e, ovviamente, di quello dei federalisti monarchici alla Gioberti o alla Balbo, oltre che - va da sé - di quello che, fra 1859 e 1861, sarà l’esito vincente. Un Regno, con la dinastia dei Savoia. Cose del dopo. Intanto nelle strade, il popolo milanese compie il miracolo - non succede niente di simile nell’Europa in fermento - di mandar via i soldati di Radetzky, sloggiandoli dal centro verso le mura e fuori delle mura. Gli insorti hanno persino rudimentali «carri armati», grosse fascine rotolanti al riparo delle quali possono avanzare riparandosi dai colpi. E servizi di informazione e di… aviazione: da campanili e torri si fanno partire palloni con messaggi e richieste d’aiuto della città alla provincia. E qui, con la regia del fondatore del Politecnico, si segnala la presenza del futuro autore del Bel Paese, l’abate Stoppani, uomo di scienza, che è uno dei seminaristi la cui presenza si segnala in quella lotta «ecumenica». Finito di scorrere il sangue, è ancora Cattaneo a contare all’ obitorio quelle centinaia di morti e a farsi un’idea di chi siano; trova più dipendenti delle grandi famiglie che membri delle stesse.
Nei primi anni Cinquanta, Mazzini insiste con la sua linea insurrezionale, che va incontro però a una divaricazione fra classi popolari e benestanti. Non si riproduce il Cln nazional-popolare del ’ 48 e nei suoi scritti ci si duole che le marsine abbiano tradito i farsetti. (E questa volta, come a Mantova, niente grazia sovrana, si fucila e si impicca: sono borghesucci e popolani, è Amatore Sciesa, non i nobili del Regno). Un indizio di quanto avverrà nei decenni a venire. Il nuovo ordine finirà per consumare non solo la leggenda eroica, ma i fatti stessi del ’ 48 milanese, così come del ’48-49 a Roma e a Venezia. Troppo avanzati, troppo repubblicani, troppo partecipati. Meglio piangere sulla partecipazione «popolare» che non ci sarebbe stata, che riconoscere quelle che ci sono. Si arriverà ai tristi giorni del Cinquantenario. Milano a fine secolo è la città di Felice Cavallotti, il bardo della democrazia, ma è governata da un centro-destra. Amministrazione, associazioni e forze popolari non riescono a mettersi d’accordo su uno straccio di commemorazione condivisa. A destra quel ’48 ribelle disturba i sonni, e non da ora. D’altronde, la deriva linguistica è chiara: fare un quarantotto, quarantottate, non siamo più nel ’48, un frasario negligente e cinico che si è venuto depositando. Così come svilire le cose fatte alla garibaldina. Tempo tre mesi dall’anniversario di marzo, e saranno i sanguinosi fatti del ’98. Le cannonate del feroce monarchico Bava della struggente nenia popolare non piacciono neppure al Torelli Viollier, fondatore e direttore del Corriere della Sera; ma i suoi pari, al club, lo guardano male e alla direzione del giornale ci mettono un altro.
Mario Isnenghi