Sergio Rizzo-Gian Antonio Stella, Corriere della Srea 16/10/2010, 16 ottobre 2010
LA SCOMMESSA VINCENTE DELL’EXPO (QUELLO DEL 1906)
Il grido «Mamma li turchi!» non era mai risuonato prima, a Milano. Dove per mesi ha serpeggiato un crescente stato d’ansia. Non per paura dei giannizzeri che giunsero alle porte di Vienna, si capisce. Né di Achmet lo «Sdentato» che massacrò la gente di Otranto. Ma dei turchi in giacca e cravatta. Capitanati dal sindaco di Smirne. Che hanno sperato davvero fino all’ultimo di soffiarci l’Expo 2015.
Certo, i milanesi che ancora vedono la loro metropoli con l’occhio del nonno di Indro Montanelli («Per lui, Milano era la cattedrale innalzata dall’homo faber alla Tecnica e al Progresso») hanno irriso all’ipotesi di essere beffati dai turchi. E i più ganassa canticchiavano «Non mi toccare il Bosforo / Lamenti di un’odalisca», il motivetto pieno di doppisensi che gli artisti del varietà hanno intonato nel 1912 davanti alle minacce ottomane per la nostra invasione della Libia. Dove all’invettiva saracena («Ma il Turco i Dardanelli / ben ti saprà tagliare!») il prode italico risponde: «Tagliarli, bella mia? / il rischio è già lontano / ormai vi ho conquistato / ho i Dardanelli in man!»
L’accordo sulle aree, raggiunto in extremis giovedì, a cinque giorni appena dalla verifica decisiva del «dossier di registrazione» da parte del Bie (Bureau International des Expositions) ha definitivamente seppellito le flebili speranze turche. Anche se la possibilità che l’assegnazione ci venisse revocata e, in seguito a una decisione clamorosa, l’Expo finisse alla città sull’Egeo, è sempre stata remotissima. Lo schiaffo all’Italia, alla Lombardia che tratta alla pari con le grandi regioni europee, allo stesso Silvio Berlusconi che si erge a simbolo della mitica efficienza lombarda, sarebbe stato troppo sonoro. Ma certo, a 5 anni dall’inaugurazione, con le settimane e i mesi che scappano via in fretta, la data-catenaccio del 2015 continua a essere un incubo.
C’è chi dirà, davanti alle risse intestine della destra che stanno minando il percorso verso l’appuntamento, che ben gli sta, agli spacconi del «ghe pensi mi», l’esposizione a questa figuraccia sull’esposizione. Che questa è la prova che i problemi dell’Italia non sono liquidabili in «Roma ladrona» o nella «palla al piede del meridione». E che insomma queste difficoltà sono quasi quasi benvenute nella ricorrenza dell’Unità d’Italia. Unità che Milano volle con amore e passione tali da coinvolgere nelle «Cinque giornate» perfino i «martinitt» dell’orfanotrofio e da riempire il cielo di palloncini affinché portassero ovunque la notizia dell’insurrezione e che oggi spesso dimentica, rimuove o addirittura rinnega. Ma sono malizie insensate e suicide.
Guai, se qualcuno esultasse per le grane milanesi gufando contro l’Expo. Guai. Non è a rischio solo la «faccia» di Milano: è a rischio la «faccia» del Paese. Il quale, in un momento in cui i nostri porti sono impossibilitati ad accogliere le immense navi portacontainer, in cui la Salerno-Reggio Calabria è impantanata in lavori interminabili, in cui la cantieristica e la chimica e la siderurgia sono in crisi e perfino il turismo perde colpi, è chiamato a dare un segno di riscossa. Tanto più con i precedenti (brutti) che abbiamo alle spalle. Tipo i Mondiali del 1990. Quando, stando a un rapporto del Servizio studi di Palazzo Chigi, avremmo dovuto spendere 3.833 miliardi e ne spendemmo 7.320, quasi sette miliardi di euro di oggi. Con impennate dei costi sui preventivi dell’83% per gli stadi e del 93% per le infrastrutture. E ritardi tali che col campionato chiuso da due mesi il 39% delle opere non era ancora finito. E un tale abuso di procedure d’urgenza che non solo il 3,7% degli infortuni sul lavoro fu mortale ma l’86% delle commesse date a trattativa privata finì sotto inchiesta. Con strascico di denunce, inchieste, arresti, processi.
Eppure, anche in questo campo, eravamo partiti bene. Era il 5 maggio del 1881. Quel giorno, un re Umberto «pallido e fiero», come scrissero le cronache dell’epoca, inaugurò la 1ª Esposizione nazionale dell’Italia unita. I visitatori furono più di un milione e vennero venduti due milioni di biglietti della lotteria abbinata. Per sei mesi la gente s’aggirò fra locomotive, macchine utensili e altre diavolerie meccaniche. L’Italia scopriva la modernità. E Milano ottenne l’investitura a capitale industriale del Paese. Certificando anche il divario immenso fra Nord e Sud. Doveva essere l’occasione per rivelare le «potenzialità economiche» delle varie regioni fino a vent’anni prima un arcipelago di staterelli con monete, dogane, passaporti diversi? Dei settemila espositori (per la gran parte lombardi) 685 erano piemontesi e 835 toscani. Dalla Calabria arrivarono in trenta. Dalla Basilicata in due.
L’Esposizione «era assolutamente sproporzionata all’ossatura dell’industria lombarda, ancora fragile e arcaica», avrebbe scritto Montanelli, «Ma raggiunse due scopi: attirò su Milano l’attenzione del capitalismo europeo in cerca di investimenti, e vi richiamò quanto vi era in Italia di energie creative. Perfino Thomas Edison vi posò gli occhi. Egli aveva appena costruito a New York la prima centrale elettrica del mondo. Per installare la seconda, scelse Milano». La città fece un figurone tale che dopo un quarto di secolo si sentì pronta al debutto sul palcoscenico mondiale con la grande Esposizione internazionale del 1906. Un’impresa da far tremare i polsi dopo le grandiose passerelle di Londra, Budapest, Parigi. Dove la torre Eiffel eretta per l’«universale» del 1889 era lì a testimoniare le difficoltà della sfida.
Organizzata su 987 mila metri quadrati divisi in due aree (il parco del Castello Sforzesco e la Piazza d’Armi), l’Expo 1906 aveva come tema «La Scienza, la città e la vita». Ma l’occasione che aveva innescato tutto era un buco di 20 chilometri sotto le Alpi: il tunnel del Sempione. All’epoca, il più lungo del mondo. Un’opera avveniristica, in grado d’aprire al collegamento ferroviario diretto Milano-Parigi. Segno tecnologico richiamato dal treno elettrico sopraelevato che collegava le due aree dell’Expo: un giocattolo che l’«Italietta» di allora, dalla quale partivano centinaia di migliaia di emigranti l’anno, mostrò orgogliosa al mondo.
Quaranta nazioni partecipanti, 13 mila espositori, sette milioni di visitatori paganti. Una lira a biglietto, l’equivalente di quattro euro di oggi. Fra le scenografie, anche la ricostruzione di una strada del Cairo con tanto di cammello (vivo) parcheggiato fuori dal ristorante. Un grande sforzo che cambiò faccia alla città lasciando un’eredità non solo morale, se si pensa al padiglione in stile art nouveau progettato dall’architetto Sebastiano Locati che ancora oggi ospita l’Acquario civico di Milano, il terzo impianto del genere più antico d’Europa. E l’incendio che annientò ai primi d’agosto il bellissimo padiglione dell’arte decorativa italiana non riuscì a ridurre in cenere il messaggio: ci siamo anche noi.
Avevano ragione, i milanesi, allora, a gonfiare il petto. Tutto funzionò come doveva funzionare: con precisione cronometrica. L’organizzazione costò 13 milioni di lire: una cinquantina di milioni di euro di oggi. Una somma ridicola al cospetto delle cifre di cui si parla per l’Expo 2015. Investimenti pubblici per un miliardo e mezzo di euro. Più risorse private per altri 200 milioni, 70
mila posti di lavoro per cinque anni, 30 milioni di visitatori, mezzo miliardo di incassi previsti sui biglietti, 250 milioni dagli sponsor. Se non bastassero? Poco male: se anche mancassero all’appello otto o novecento milioni, in qualche modo salteranno fuori. Non servono le grandi vetrine internazionali a cambiare faccia alle città?
E questo è il guaio: certe occasioni bisogna saperle cogliere. E investirci davvero. «Una cosa è sicura», ha detto poche settimane fa l’amministratore delegato della società addetta all’appuntamento del 2015 Giuseppe Sala, «l’Expo di Milano sarà completamente diversa nei numeri e nei contenuti rispetto a questa di Shanghai». Evviva: il confronto ci lascerebbe tritati. Ne convengono anche i cinesi. Sapete come titolava a tutta pagina il 16 settembre Expo Daily, quotidiano ufficiale dell’Esposizione di Shanghai? «Modest Milan for 2015». Superfluo ogni commento. D’altra parte non si può dire che a Shanghai la promozione dell’evento milanese sia stata proporzionata all ’ e norme s uccesso del padigl i one italiano. Un’unica conferenza stampa, il 15 settembre, con il risultato di quell’infausto titolo sul giornale. Un concerto dell’orchestra filarmonica della Scala. E stop. Non solo. Mai andato (finora) Berlusconi. Mai andato (finora) Roberto Formigoni. Mai andata (finora) Letizia Moratti. Occhio non vede, cuore non duole.
L’Expo cinese ha registrato investimenti diretti per 4,2 miliardi, stanziamenti in opere infrastrutturali per altri 45, la realizzazione di 3 linee metropolitane aggiuntive che hanno portato la rete sotterranea della città a 420 chilometri, due nuovi terminal aeroportuali di cui uno da 260 mila passeggeri al giorno, il risanamento di un’immensa area lungo il fiume Huangpu per accogliere 242 padiglioni che occupano uno spazio sei volte maggiore di quello preventivato da noi, la partecipazione di 191 nazioni (per gli africani senza soldi ha pagato Pechino) e l’obiettivo dichiarato di 70 milioni di visitatori. Probabilmente raggiungibile se è vero che nella sola giornata di venerdì 18 giugno ne sono entrati 413.200.
Vogliamo insistere, come bofonchia ancora qualcuno, a descrivere i cinesi come produttori di gondole di plastica e accendini fosforescenti a forma di Colosseo? Prego. Ma andiamo a schiantarci. Si possono pure perdere, le sfide. Combattendo, però. Non così. Non come rischia di perdere la sua scommessa Milano. Esponendosi alle ironie di chi ricorda come Stendhal comparava il coraggio guerresco dei lombardi antichi e la decadenza di quelli usi a «stampar sonetti su fazzolettini di taffetà rosa». O alla soave ferocia di Camilla Cederna nel descrivere l’acquario della nuova classe dirigente ambrosiana di «eroi dei boudoir economicamente irresistibili e con la pelle del viso conciata dal sole di crociera», «famosi agenti di cambio» e «belle esordienti, Lilly, Lety, Chippy, Diamante e Cocò».
Fino a giovedì scorso, dicevamo, quando erano passati già due anni e mezzo da quel 31 marzo 2008 in cui il Bie assegnò a Milano l’Expo 2015 preferendola a Smirne, mancavano ancora addirittura i terreni. Mai come in questa circostanza essenziali. Il tema sarà «Nutrire il pianeta, energia per la vita». L’attrazione principale consisterà in un orto immenso dove si potrà assistere a tutte le fasi dello sviluppo vegetativo di piante di ogni genere, dalle zucchine ai pomodori, dal mango al caffè. E l’orto sarà anche l’eredità più importante che l’esposizione lascerà alla città, insieme al completamento di un paio di linee della metro, in ballo dai tempi della prima giunta Albertini.
E pensare che l’area fra Rho e Pero, 98 ettari a ridosso della nuova Fiera, era stata individuata per tempo. Nel 2007, ancora prima di sapere che Milano l’avrebbe spuntata, Provincia, Regione e Comune trovarono un accordo con la stessa Fiera e con il gruppo Cabassi, rispettivamente padroni di due terzi e un terzo dell’area. Terreni agricoli. E qui stava il nodo: i proprietari avrebbero ceduto in comodato gratuito all’Expo i 98 ettari ricevendo in contropartita, una volta chiusi i battenti, il permesso di costruire almeno un po’.
Tessitore dell’accordo, Paolo Glisenti, all’epoca braccio destro di Letizia Moratti e uomo designato a dirigere l’enorme operazione dell’Expo 2015. Siglata l’intesa e battuta Smirne, restano da definire i particolari. Ma la Regione, improvvisamente, blocca tutto. Agitando lo spettro della speculazione edilizia: gli eredi di Giuseppe Cabassi detto «Pino el sabiunàt», non son forse costruttori? Anche se i maligni collegano la svolta al ribaltone alla presidenza della Fondazione Fiera Milano, dove Luigi Roth, legatissimo a Formigoni, viene sostituito a Natale del 2009 dal senatore Giampiero Cantoni, legatissimo invece al Cavaliere. Vero? Falso? Quale che sia il movente, la faccenda si incarta.
A quel punto il governatore propone che i terreni siano comprati dalla Expo 2015 spa. Ma il procedimento sarebbe un calvario: stime dell’Agenzia del Territorio, eccezioni, contro perizie… Per non parlare dei costi. Infatti Giulio Tremonti non ci sta. E nemmeno la Provincia. Allora salta fuori la proposta di far comprare tutto alla Regione. Oppure alla Fiera. No, meglio espropriare. Sono terreni agricoli e valgono pochissimo. Ma che si fa degli accordi scritti? Sai che pacchia, per gli avvocati! Ecco allora che per sciogliere l’intrico l’unica soluzione è dare tutti i poteri a qualcuno. A chi? A un «commissario»: Letizia Moratti. Appena in tempo per risolvere la grana tornando, pensate un po’, praticamente all’ipotesi iniziale. Terreni ceduti all’Expo in comodato e poi, una volta chiusi i battenti, la possibilità di costruire su metà della superficie: 400 mila metri quadrati. «Un regalo ai privati», ringhia il partito democratico. Mentre il centrodestra tira un respiro di sollievo.
Ma come si è arrivati a questo? Per capirlo è meglio, in questo caos, ripartire dall’inizio. Da quella primavera 2008 in cui una Moratti raggiante ci tiene a ringraziare pubblicamente non solo Prodi ma anche l’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema e Bobo Craxi ed Emma Bonino, capaci di andare a raccogliere i voti, a favore di Milano, dei Paesi del Maghreb: «Questo risultato è figlio di noi tutti, non lo avremmo ottenuto senza un vero gioco di squadra».
Il Cavaliere sbuffa: «Il governo avrà fatto del suo meglio, ma non ha un merito esclusivo, anche perché il merito maggiore spetta a Letizia Moratti. Ed è anche merito mio che, sotto la regia di Letizia, ho invitato dei commissari ad Arcore…». Ma niente paura: stanno per arrivare le elezioni che spazzeranno via la fastidiosa coabitazione. D’ora in avanti, governo cittadino, regionale e nazionale saranno identici: tutti e tre di destra. Ancora un anno di impazienza e alle elezioni del 2009 sarà sgomberata l’ultima anomalia, la provincia. Da Palazzo Marino a Palazzo Chigi quattro su quattro amministrazioni di destra. L’ideale per marciar compatti verso il sol (padano) dell’avvenire. La trionfale Expo del 1906 fu gestita da varie amministrazioni di diverso colore? Stavolta andrà ancora meglio.
Macché: una lite dietro l’altra. Tutti i giorni. Tutti contro tutti. I primi otto mesi se ne vanno in chiacchiere. E la «Expo 2015 spa» nasce solo nel dicembre 2008: il Tesoro ha il 40%, Regione e Comune il 20% ciascuno, la Provincia e la Camera di commercio il 10% a testa. Da allora non ne va liscia una. A partire dalla nomina del presidente, l’imprenditrice Diana Bracco. «Avremmo preferito Angelo Provasoli, indicato dal Tesoro», fa sapere la Provincia. Ma il caso vero e proprio scoppia sull’idea di mettere tutto nelle mani di Paolo Glisenti. La Lega, che ha piazzato l’ex senatore Dario Fruscio alla presidenza del collegio sindacale, è contraria. Come Formigoni: in una Regione dove Carroccio e Cielle guerreggiano posto su posto, l’uomo della Moratti è un intruso. E alla fine il sindaco deve cedere. Arriva come amministratore delegato l’ex manager Ibm Lucio Stanca, che da ministro avrebbe dovuto portare «un computer su ogni banco». «E’ già parlamentare!», salta su la sinistra: la legge del ‘53 dice che i deputati non possono avere poltrone in società pubbliche! Ma no, ribatte lui: c’è una deroga per quelli che guidano gli «enti fiera» e siccome Expo 2015, anche se costerà un miliardo e mezzo, è comunque una fiera…
Il Parlamento accoglie la tesi. Ma passa un anno e la Bracco, nel giugno 2010, sfiducia l’Ad con una lettera rivelata sul Corriere da Elisabetta Soglio: troppi ritardi. Stanca ribatte: «Troppe strumentalizzazioni». Ma deve gettar la spugna. Due mesi dopo anche Stefano Boeri, unico italiano nella Consulta architettonica, se ne va. Ha accettato di candidarsi con il Pd alle comunali del prossimo anno. Però è un altro birillo che salta.
Nel frattempo, da quando è stato fatto fuori Glisenti, in consiglio è successo di tutto. Fruscio ha lasciato il collegio sindacale al consigliere del Tesoro Provasoli, che da controllato è diventato controllore. Ma a quel punto non c’è più nessun leghista: avanti Leonardo Carioni, presidente della Provincia di Como. E poi fuori il «sinistrorso» rappresentante provinciale di Penati e dentro quello di Guido Podestà: Carlo Secchi, ex rettore della Bocconi e consigliere d’amministrazione di Mediaset. E siccome Formigoni vuole alla Regione un «sottosegretario» all’Expo, dirotta a quell’incarico Paolo Alli e lo rimpiazza con Fabio Marazzi. Quanto alla poltrona di Lucio Stanca, ci mettono Giuseppe Sala, già manager Telecom e poi direttore generale del Comune.
Avete perso il filo? Riassumiamo: in 2 anni e mezzo e senza il fastidio di un’opposizione, «Milano 2015» accudita da un sottosegretario regionale, un commissario comunale, un «assessore provinciale all’Expo» (Silvia Garnero, diletta nipote di Daniela Garnero Santanchè che tre anni fa aveva profetizzato, da anti-berlusconiana non ancora redenta, la vittoria turca) ha cambiato due amministratori delegati, tre consiglieri, il capo dei revisori. Installandosi in 3 diverse sedi per un monte affitti di 400 mila euro l’anno. Spendendo 985 mila euro per «promozione e marketing» e 916 mila in consulenze, di cui 338 mila per gli avvocati e addirittura 387 mila spese per «ricerca e selezione del personale». Assumendo contemporaneamente un centinaio di persone.
Su tutto, spicca una chicca. L’ingaggio per 175 mila euro, come responsabile culturale e dei rapporti istituzionali di quella Expo che per i «lumbard» dovrebbe rilanciare nel mondo Milano «caput gallorum aemula Romae», come ironicamente la chiama Giorgio Bocca, di una bella signora. Alessandra Borghese, romana, qualche papa in famiglia. Autrice di volumi intitolati «Sete di Dio», «Sulle Tracce di Joseph Ratzinger», «Lourdes, i miei giorni al servizio di Maria». Che forse segnalano una fede profonda. Ma non proprio nella laica e operosa «cattedrale innalzata dall’homo faber alla Tecnica e al Progresso» di cui parlava Montanelli…
Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella