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 2010  ottobre 21 Giovedì calendario

LA CINA? VALE LA META’


Prendete il vostro iPod. O anche l’iPad o l’iPhone. Sono tre apparecchi che definiscono questi anni. Guardate l’etichetta. C’è scritto: "designed in Usa, assembled in China". Traducendo alla buona, siamo portati a dedurre: inventato dagli americani, fatto dai cinesi. Ma non è vero: di cinese, in termini di valore del prodotto, nei gioiellini della Apple come in gran parte dei personal computer, non c’è praticamente nulla. Quando le dogane registrano l’iPod o il pc della Hp come un’importazione dalla Cina compiono una grossolana semplificazione, che ricompatta in un’unica direzione di marcia una globalizzazione frantumata in decine di rivoli diversi. Lo stesso, del resto, avviene, in buona misura, quando si incasella una Porsche Cayenne come un’importazione da Lipsia. Se ne è accorto anche il Wto, che sta tentando faticosamente di riscrivere le statistiche del commercio internazionale: l’industria globale è globale per davvero. Dove queste statistiche hanno un peso politico, come nel caso del deficit commerciale Usa-Cina, questa riscrittura è destinata a pesare politicamente: quel deficit è la metà - ha scoperto il Wto - di quello che sembra. Il pericolo giallo, insomma, è meno brutto di come lo si dipinge. L’hi-tech cinese fa passi da gigante, ma è ancora qualcosa di molto piccolo e i profitti, per ora, si raggrumano ad Occidente. Tutto questo ha anche effetti immediati: una rivalutazione dello yuan, la moneta cinese, caldeggiata in tanti vertici internazionali, non avrebbe affatto gli effetti miracolistici che molti si attendono.
Greg Linden, Kenneth Kraemer e Jason Dedrick sono tre studiosi americani che hanno provato a ricostruire la distribuzione del valore di un iPod, operazione tutt’altro che semplice, dato che i rapporti fra la Apple e i suoi fornitori sono coperti dal segreto industriale. Il modello prescelto è un video iPod da 30 giga, del 2005. Prezzo di vendita al dettaglio, negli Usa, 299 dollari. Di questi, 154,60 dollari vanno a coprire i costi di trasporto, di distribuzione, il margine del negozio e il profitto Apple. Il prezzo di fabbrica è 144,40 dollari ed è questo che, nelle statistiche doganali, appare come valore di importazione dalla Cina. Ma la realtà è diversa. Quasi 74 dollari, più della metà, sono il costo dell’hard drive, che viene dal Giappone (Toshiba), come anche il display (ancora Toshiba), che vale altri 25 dollari. I 45 dollari restanti si dividono fra il processore multimedia (Broadcom, Usa), i chip di memoria (Samsung, Corea e Elpida, Giappone), le batterie (Giappone). E i cinesi? Gli sono rimasti test e assemblaggio, che, in tutto, contano per 3,86 dollari ed è questo l’effettivo valore aggiunto in Cina (peraltro da un’azienda con la proprietà a Taiwan): il 2 per cento del prezzo di fabbrica. Tutto il resto è stato importato, anche se, sulla bilancia commerciale, il risultato sarà semplicemente: meno 144,40 dollari per gli Usa e più 144,40 dollari per la Cina.
Invece, sono solo pochi spiccioli. La ricerca conferma che, con la globalizzazione, il mondo sarà anche, secondo la famosa definizione di Tom Friedman, diventato "piatto", ma trattasi di un piano inclinato che, per ora, continua a far affluire i profitti ad Occidente. Il margine della Apple è di 80 dollari sui 224 del prezzo all’ingrosso dell’iPod, cioè il 36 per cento e la fetta più grossa del prezzo finale. Non è un’anomalia della società di Steve Jobs: la conferma che, dalla attuale divisione del lavoro, a guadagnare sono soprattutto le aziende dei paesi già ricchi viene anche da un settore meno segnato, oggi, dall’innovazione, come i personal computer. Un pc della Hp, assemblato in Cina, porta all’azienda californiana margini di profitto inferiori a quelli della Apple, ma solo perché una grossa quota dei guadagni viene intercettata dal software Microsoft e dai processori Intel, due altre aziende americane.
Non si tratta, però, solo dell’elettronica. La Cina, "fabbrica del mondo", lavora, in realtà, quasi sempre riciclando parti che importa dall’estero. Robert Koopman, Zhi Wang, Shang-Jin Wei sono altri tre studiosi che hanno tentato di valutare quanto dell’export cinese sia effettivamente "made in China". Su 61 settori manifatturieri analizzati, 33 (fra cui l’abbigliamento) hanno un contenuto di produzione interna nelle loro esportazioni superiore al 65 per cento, ma, in tutto, rappresentano solo un terzo dell’export cinese. Altri 15 (fra cui giocattoli e articoli sportivi) hanno un apporto nazionale superiore al 50 per cento, ma incidono solo per il 22 per cento dell’export manifatturiero totale. Negli ultimi 13, il contenuto nazionale delle esportazioni è inferiore al 50 per cento, ma il loro peso sull’export totale è del 44 per cento. In quest’ultima categoria, ci sono i settori più sofisticati: computer, telecomunicazioni, apparecchi elettronici. Qui, secondo lo studio, il contenuto nazionale dell’export si riduce al 20 per cento. "L’immagine di una struttura tecnologicamente avanzata dell’export cinese", concludono Koopman e soci, " è largamente un miraggio statistico".
In media, comunque, il contenuto di parti importate che confluisce nell’export di prodotti finiti cinesi è del 50 per cento. Non è un fenomeno solo cinese. Alejandro Jara, vice direttore del Wto, sottolinea che la stessa quota di "riesportazioni" sul totale delle esportazioni vale anche, ad esempio, per Taiwan e Malaysia. Per la Corea, siamo al 56 per cento. È la prova di quanto sia ancora fragile la struttura industriale dei paesi emergenti, rispetto ai paesi di più antica industrializzazione. In Giappone, il contenuto nazionale delle esportazioni è pari al 77 per cento, negli Usa all’80 per cento. Fermarsi a questa fotografia, tuttavia, porterebbe fuori strada. Non sono solo i nuovi paesi emergenti ad importare per riesportare. Lo fanno, sempre più, tutti, compresi i grandi paesi industriali tradizionali. Il primo Airbus 380, uscito da Tolosa, vola su ali prodotte in Spagna e Inghilterra, con una fusoliera tedesca e motori americani. In tutto, l’Airbus ha 1.500 fornitori, sparsi in 27 paesi. Finanche icone nazionali, come le auto tedesche, sono tedesche solo in parte: il 35 per cento della Porsche Cayenne viene dall’estero. Se il quadro complessivo che risulta da queste tendenze contrastanti appare confuso è perché, in effetti, è così: un ballo senza soste di progettazioni, importazioni, riesportazioni, test, assemblaggi, revisioni che rimbalza, sempre più veloce, dai quattro angoli del mondo. La globalizzazione è un processo che diventa, ogni giorno, più intricato.
Il Wto, assicura Jara, è impegnato in questi mesi nello sforzo di rielaborare le statistiche, basandole sul valore aggiunto da ogni singolo paese, piuttosto che dal valore totale del prodotto finale, in modo da tenere conto di questo vortice. Per dare alla Repubblica Ceca quello che è della Repubblica Ceca nella Porsche e al Giappone quello che è del Giappone nell’iPod. Il risultato sarà una mappa del commercio internazionale molto diversa da quella cui siamo abituati, in cui, probabilmente, vedremo sgonfiarsi conflitti aspri come quello sul deficit commerciale americano verso la Cina. Jara calcola che, se si tiene conto di quanto, nell’export cinese che arriva alla dogana, sia effettivamente prima importato da Pechino e, poi, riesportato, il deficit Usa-Cina si ridurrebbe alla metà: 134 miliardi di dollari l’anno, invece di 268 miliardi. Questo non significa che la bilancia commerciale americana tornerebbe in attivo. Il disavanzo diminuirebbe verso la Cina, ma aumenterebbe verso Giappone e Corea. Però, sarebbe inutile prendersela con i cinesi. Come è inutile sperare che una rivalutazione dello yuan sani magicamente gli squilibri, rendendo meno conveniente importare dalla Cina. Se solo metà dell’export cinese è, effettivamente, made in China, perché il resto è importato dall’estero, una rivalutazione del 10 per cento dello yuan aumenterà il prezzo del bene cinese solo del 5 per cento. Nel caso di prodotti elettronici (dove il contenuto importato e riesportato è dell’80 per cento) solo del 2 per cento. Anzi, forse, zero, visto che, con lo yuan più forte, anche importare le parti da riesportare costerà meno.