Alessandro Gilioli, L’espresso 21/10/2010, 21 ottobre 2010
IL DITTATORE DI FACEBOOK
Adesso che anche in Italia sta per uscire il film su di lui, molti si chiederanno se Mark Zuckerberg è davvero così: un ragazzo mostruosamente ambizioso e vagamente autistico, che quasi per caso inventa il social network più famoso del mondo rubacchiando idee dai compagni d’università e sfogando nel computer la rabbia di una post-adolescenza solitaria. Così ad esempio negli Stati Uniti, dove la pellicola è in circolazione dal primo ottobre (per "Rolling Stone" è "il film dell’anno"), il dibattito si è avvitato attorno ai presunti pregi intellettuali e difetti etici del suo protagonista, estendendosi al massimo a qualche interrogativo sulla sua generazione: quella dei nativi digitali made in Usa, a cui pare non interessi alcun ideale al di fuori dei loro computer e alcun obiettivo al di fuori dei loro conti in banca.
La questione, ovviamente, ha il suo interesse, tra il sociologico e l’aneddotico: Zuckerberg, figlio di un dentista e di una psichiatra, cresciuto in una cittadina di 20 mila anime a nord di New York, inizia a scrivere software mentre fa ancora le medie, chiudendosi in casa a smanettare sul pc anche il sabato con buona pace dei genitori ebrei. Ma già quando è al liceo, ad Ardsley, papà e mamma capiscono che nella solitudine digitale di Mark probabilmente si nasconde del genio - e d’altro canto i "programmini" che s’inventa in casa suscitano le robuste profferte di corporation informatiche come Microsoft e Aol. Così dopo la high school gli fanno compilare il modulo per essere ammesso a Harvard e a 17 anni il giovane Zuckerberg si ritrova matricola nell’università più prestigiosa del mondo. Dove, tra il 2003 e il 2004, userà le proprie straordinarie capacità informatiche per far propria un’idea che circolava da tempo tra diversi compagni d’ateneo, quella di rendere interattivo via Web il classico faccia-libro delle scuole americane che raccoglie foto, nome e corsi frequentati da ogni studente.
Si sa com’è andata a finire: oggi Facebook ha superato il mezzo miliardo di iscritti, fattura un miliardo di dollari l’anno ed è il secondo sito più cliccato al mondo dopo Google. Ma soprattutto è diventato il luogo attraverso il quale milioni di persone coltivano ogni giorno le proprie relazioni sociali e amicali, migliaia di politici nei cinque continenti coltivano il proprio consenso elettorale, decine di migliaia di aziende coltivano il proprio marketing. E, ancora, è diventato lo strumento per la nascita e la crescita di "cause" e di battaglie civili (da quando un utente colombiano, Oscar Morales, nel 2007 ha creato un gruppo che ha portato 12 milioni di persone in piazza contro le Farc), quindi un detonatore potenzialmente impressionante per creare e influenzare l’opinione pubblica. Un immenso luogo di incontro e di confronto dove si mescolano l’alto e il basso (approfondimenti sulla "Critica della Ragion pura" e goliardate sulle compagne di classe tettone), le minuzie quotidiane e le scelte epocali ("Lo si può usare per decidere dove andare a cena ma anche per scegliere il presidente degli Stati Uniti", come sintetizza l’autore del saggio "The Facebook Effect", David Kirckpatrick). Comunque, una "cosa" che influenza e influenzerà sempre di più le nostre scelte di cittadini, consumatori, elettori.
Di qui, è naturale, la grande curiosità attorno al padre-padrone di Facebook e alle sue vere o presunte indegnità morali (avrà o non avrà rubato l’idea vincente ai compagni di corso?). E di qui le interviste pressanti al giovane Zuckerberg per capire fino a che punto è avido e malvagio, se e quando utilizzerà i nostri dati personali per rivenderli ai vampiri del direct marketing, quali politiche di privacy vorrà garantire ai 500 milioni di clienti che hanno riempito il social network con le loro foto, i loro video, i loro gusti personali. Quasi che - trovandoci ormai ad essere cittadini di uno Stato trasversale le cui leggi sono diventate per l’esistenza di molti più importanti di quelle del loro Stato reale - ormai ci si possa soltanto affidare alla benevolenza del suo sovrano assoluto (un programmatore ventiseienne, alla fin fine) e dei suoi potentissimi dignitari: quelli che con un colpo di clic possono cancellare il nostro account (magari su "segnalazione" di qualche nostro avversario, nemico o concorrente) distruggendo le relazioni di una persona, il futuro di un’azienda, le chance di una causa politica.
E la storia recente di Facebook - anche in Italia - ha dimostrato che la questione è tutto fuori che virtuale. Un esempio tra i tanti è quello che è accaduto nel dicembre scorso, dopo il caso Tartaglia: quando sul social network più diffuso del mondo erano apparse pagine che inneggiavano all’assalitore di Berlusconi, poi censurate in base a un accordo diretto (una telefonata, a quanto pare) tra il ministro Roberto Maroni e i vertici di Facebook. Nulla di grave, per carità, e nessuno piange per la sparizione di qualche gruppo idiota: ma la dimostrazione dell’arbitrarietà assoluta con cui viene governato Facebook, resa ancora più palese dalla sopravvivenza - per contro - di decine di altre "pagine d’odio" almeno altrettanto stupide e violente, rimaste on line perché nessun governo ne aveva chiesto la cancellazione.
Ma al di là degli ukaze ministeriali, il problema è che la policy non solo di Facebook ma di tutte le piattaforme sociali - compreso YouTube - sembra quasi randomizzata: si oscurano contenuti scorretti e non altri uguali, si "bannano" video o account spesso senza nulla capire o sapere delle loro intenzioni, si bloccano le mail tra utenti in cui ci si scambiano link a opere di pubblico dominio solo perché si sospetta che venga violato un copyright, si censurano (è accaduto proprio su Facebook) i messaggi in cui ci sono riferimenti a piattaforme concorrenti o a siti Internet che per motivi politici sono considerati "inaccettabili".
Allora i riflettori che oggi vengono puntati sul carattere più o meno infido di Mark Zuckerberg, il piccolo dittatore di Palo Alto, potrebbero essere più utilmente diretti sul problema crescente dei nuovi poteri forti nell’era digitale, quella in cui i cittadini-clienti delle piattaforme sociali sono costretti a subire passivamente umori e decisioni di ignoti signori che siedono davanti a un computer dall’altra parte del mondo.
Per anni il problema della "governance" della Rete, e la conseguente salvaguardia dei diritti degli utenti, è sembrata una questione solo da tecnofili: e temi come la neutralità del Web o la libertà nei social network non hanno riscosso l’interesse della politica, impegnata solo a proporre leggi burocratizzanti e censorie. Adesso forse è il momento di ragionare alla rovescia, per provare a garantire e ad estendere (anziché a ridurre) i diritti dei "netizen". Cioè appunto dei cittadini di quella grande repubblica che è Internet. Insomma, di tutti noi.
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