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 2010  ottobre 15 Venerdì calendario

LoboAntunes Antonio

• Lisbona (Portogallo) 1 settembre 1942. Scrittore • «[...] Ogni anno gli viene attribuito un qualche prestigioso premio. E ogni anno viene candidato al Nobel. I suoi libri (In culo al mondo, Le navi, Trattato delle passioni dell’anima, L’ordine naturale delle cose, Buonasera alle cose di quaggiù) tracciano un percorso interiore degli avvenimenti storici di cui l’autore è stato testimone diretto: come ad esempio la guerra coloniale in Angola. [...] “Sono uno scrittore, non uno scrittore portoghese, la geografia non esiste. La famiglia di mio padre era tedesca quella di mia madre del nord del Brasile. E il padre di mia madre era ebreo. In letteratura non c’è un centro né una periferia, ci sono solo scrittori bravi e meno bravi”. Eppure, i suoi libri sono pieni di indicazioni geografiche, nomi di quartieri, fiumi, città. “Li uso come parole evocative piuttosto che descrittive. La Lisbona come l’Africa dei miei libri, è pura finzione [...] Emil Cioran, che era un esule rumeno e scriveva in francese a Parigi, diceva: ‘Non si vive in un paese, si vive in una lingua’. Io non ho mai letto i miei libri, li ho scritti. Scrivere è un corpo a corpo con il manoscritto, un difficile lavoro. E la vera domanda non è cosa scrivere, ma come scrivere [...] Mio padre era un neuropatologo e uno dei miei fratelli è un neurochirurgo” [...] anche Lobo Antunes è medico psichiatra. “I miei hanno lavorato con persone vittime di ictus. Mi hanno spiegato che chi, in seguito a lesioni cerebrali o incidenti vascolari, perde la memoria, rimane senza immaginazione. Questo dimostra che l’immaginazione non è altro che la maniera in cui strutturiamo e arrangiamo la nostra memoria. Un autore non inventa niente”. Alla domanda a cosa mira uno scrittore, risponde: “Ci sono sensazioni, emozioni, paure che non hanno un corrispettivo in parole e sono queste le cose che interessano maggiormente. Non so come la pensino i miei colleghi, ma io ho capito che dovevo smettere di impressionare il lettore con fuochi d’artificio. Prendiamo Nabokov. Un grande scrittore, ma allo steso tempo la sua intelligenza è un ostacolo. A ogni giro di pagine te la vuole dimostrare. Un libro invece deve essere intelligente in sé, anziché esibire l’intelligenza del suo autore”. Alla domanda perché l’uomo non può, da 6 mila anni, fare a meno della scrittura, risponde così: “Non saprei perché l’animale umano sente il bisogno di narrare. Diffido degli scrittori che citano tra le influenze che hanno subito i grandi del Novecento. Per me tutto è partito con Flash Gordon, Salgari e subito dopo, Curzio Malaparte. Da adolescente, quando ho detto ai miei genitori che volevo essere scrittore, hanno temuto che fossi omosessuale, un incubo per la cultura maschilista lusitana”. Più tardi il padre gli regala Morte a credito di Louis-Ferdinand Céline, “un libro che mi ha convinto della possibilità della parola scritta”. All’epoca iniziò una corrispondenza con il grande e controverso (antisemita e filonazista) scrittore francese. Oggi sono i giovani autori a cercare Lobo Antunes. “Comunque a 16 anni, finito il liceo, ho detto di nuovo a mio padre che volevo scrivere, e lui : ‘Benissimo, prima diventa dottore e poi se ne parla’”. Laureato, viene spedito in Angola come ufficiale medico e si trova nell’inferno di una guerra già persa. [...] “Sulla guerra non si può scrivere niente. Ho visto tanti film di guerra, tutti falsi”. L’Africa ha comunque lasciato un ricordo indelebile e parlandone è rapito dal ricordo. Al ritorno si specializza in psichiatria. Poi, nel 1979 pubblica in Portogallo Memoria do elefante, che diventa un caso letterario. “Non avevo mai pensato di pubblicare. Un giorno un amico ha visto il manoscritto e mi ha chiesto se poteva leggerlo. Si è occupato lui di trovare il primo editore”. La critica ne riconosce subito l’originalità e anche dall’estero arrivano i consensi. “Una mattina ricevo una lettera da Tom Colchie, l’agente letterario di Jorge Amado, a New York. Pensavo fosse uno scherzo. Non ho risposto. Ma lui mi ha scritto di nuovo. Così mi sono detto, perché no? Mi sembrava chic avere un agente a New York. Poi tutto è decollato”. Dal 1985 ha lasciato la medicina per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. “Ho imparato molto dalla psichiatria così come da tutte le esperienze positive e negative della vita, ma volevo più tempo per scrivere. Da quel giorno non ho più scuse”. [...] ha avuto un cancro, curato. “Quando mi è stato diagnosticato l’ho preso come una condanna a morte. Per un attimo l’illusione di avere l’eternità davanti, condizione con cui viviamo sempre, soprattutto se scriviamo libri, mi era stata sottratta. Oggi non penso più alla morte. Cerco di godermi ogni momento di vita, una giornata di sole [...] L’esperienza mi ha trasformato, per la prima volta ho provato che essere vivo è un grande onore. Ero in un ospedale pubblico e ho visto gente morire o prepararsi a morire. Ed erano così coraggiosi, pieni di dignità, davvero. Io ne sono uscito e ho provato vergogna, loro che erano uomini sicuramente migliori di me sono morti e io sono guarito. Penso che aver avuto il cancro mi ha reso migliore [...] Chi scrive, all’inizio pensa di dover scrivere solo di ciò che conosce meglio. Al contrario, ho scoperto che è molto più interessante scrivere di cose che ci sono ignote. In Che farò quando tutto brucia? ho descritto il mondo dei travestiti senza averne mai conosciuto uno, ho dato voce a donne (cosa ne sappiamo noi maschi?) [...] Non sono modesto, so che nessuno scrive come me, ma umile sì [...] L’ispirazione? Non ne ho mai avuta, non so cosa sia. Come nascono le mie storie? Ma io non racconto storie. I miei personaggi? Nei miei libri non ci sono personaggi” [...]» (Alessandro Cassin, “L’espresso” 23/4/2009).