Francesco Guerrera, La Stampa 15/10/2010, pagina 1, 15 ottobre 2010
La Cina ha bisogno di tempo - Per capire la «guerra delle monete» che rischia di sconvolgere l’economia mondiale bisogna partire dall’Hotel Plaza di New York
La Cina ha bisogno di tempo - Per capire la «guerra delle monete» che rischia di sconvolgere l’economia mondiale bisogna partire dall’Hotel Plaza di New York. E dopo due settimane passate in stanzette senza finestre ad ascoltare alti funzionari cinesi, politici americani e burocrati internazionali lanciarsi accuse reciproche sul futuro delle loro divise, è stato un piacere fare i due passi che separano il mio ufficio dal famosissimo albergo. Gli amanti del cinema adorano il palazzone all’angolo tra la quinta strada e Central Park – uno degli indirizzi più nobili della Grande Mela – per le scene iniziali di «A piedi nudi nel parco» con i neo sposi Robert Redford e Jane Fonda che scendono dalla carrozza e entrano nell’hotel dove trascorreranno la luna di miele. Ma per i patiti della finanza, il Plaza non è un posto dove passare la luna di miele ma un monumento alla cooperazione internazionale. Fu qui che nel 1985, con il mondo sull’orlo di una guerra commerciale senza precedenti, gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania dell’Ovest, la Francia e la Gran Bretagna firmarono un patto storico. L’accordo del Plaza aprì la strada alla svalutazione del dollaro nei confronti delle altre monete, lo yen in particolare, salvando l’economia americana e ribilanciando i flussi di capitale. A 25 anni di distanza, siamo di nuovo sul baratro del protezionismo ma questa volta la tensione è quasi esclusivamente tra Stati Uniti e Cina – la vecchia superpotenza e la sua rivale più agguerrita. Negli ultimi mesi, gli Usa hanno intensificato la pressione su Pechino per rivalutare il renminbi, minacciando un’ondata di tariffe contro le importazioni cinesi se la moneta non viene rivalutata al più presto. I cinesi, da parte loro, sono così furiosi con gli attacchi di Washington che hanno abbandonato la tradizionale circospezione in favore della schiettezza tanto amata dagli americani. Il premier cinese Wen Jiabao l’ha detto chiaro e tondo la settimana scorsa a Bruxelles: «Smettetela di fare pressione sulla moneta», ha ammonito prima di rivelare la grande paura dei governanti cinesi: «Una moneta forte distruggerebbe le nostre aziende, creando malcontento sociale e questo sarebbe un vero disastro per il mondo». Purtroppo, entrambe le parti hanno ragione. Obama e il suo ministro delle Finanze Tim Geithner sanno benissimo che, con i consumatori americani ancora in stato semi-comatoso, la ripresa economica deve partire dal mondo delle imprese e delle loro esportazioni. Il crollo dell’euro durante l’estate e gli interventi costanti della banca centrale cinese per tenere il renminbi allineato con il dollaro non aiutano proprio né a risollevare l’economia né a tagliare l’enorme deficit nella bilancia commerciale statunitense. Pechino, d’altra parte, ha bisogno di crescita economica a rotta di collo per mantenere il fragile equilibrio politico e sociale in un paese con più di un miliardo di abitanti. Attaccare il settore delle esportazioni in un momento in cui le classi medie cinesi non sono né abbastanza grandi o né abbastanza ricche per incominciare a spendere, sarebbe come uccidere la gallina dalle uova d’oro. Wen Jiabao e il presidente Hu Jintao sanno bene che una delle conseguenze più gravi dell’accordo del Plaza fu che la rivalutazione dello yen portò al ristagno quasi totale dell’economia nipponica. Una «decade nera» stile Giappone provocherebbe conflagrazioni sociali devastanti per il regime cinese. Mentre gli Usa e la Cina si studiano da parti opposte del ring come due pesi massimi pronti allo scontro, il resto del mondo soffre. Paesi come la Corea del Sud ed il Giappone, che hanno bisogno di esportazioni per stimolare l’economia, stanno buttando miliardi di dollari sui mercati delle valute per svalutare le loro divise e non perdere terreno con il renminbi. Altre nazioni emergenti, come il Brasile, protestano che questa corsa frenetica al ribasso delle monete sta distruggendo la competitività delle loro imprese. Il recente lamento di Guido Mantega, il ministro delle Finanze di Brasilia, l’ha detta tutta: «Siamo schiacciati nel mezzo di una guerra delle monete internazionali». Come arrivare ad un armistizio? L’ultimo tentativo, al summit del Fondo Monetario Internazionale a Washington la settimana scorsa, si è concluso con un nulla di fatto. L’incontro del G20 in Corea alla fine di novembre sembra già l’ultima spiaggia per evitare un’esplosione di misure protezionistiche, soprattutto negli Stati Uniti dove il Congresso è agguerritissimo e in piena campagna elettorale. Da un punto di vista prettamente economico, i Paesi leader nella finanza internazionale sono afflitti da una piaga comune: una carenza di domanda interna. Da Detroit a Shanghai, da Seul a Osaka, il problema è che non c’è abbastanza gente nei negozi, sugli aerei, negli uffici di vendite immobiliari. In teoria, i grandi movimenti di capitale da Ovest a Est – società occidentali che investono nella rapida crescita economica del mondo in via di sviluppo – dovrebbero consentire al blocco asiatico di far aumentare le divise senza troppe sofferenze. L’influsso di capitale dovrebbe più che compensare per la perdita di esportazioni, creando un circolo virtuoso che aiuta sia i Paesi in via di sviluppo che i vecchi continenti. Ma Pechino non è d’accordo e ha i mezzi per farsi sentire. Barricati dietro gli altissimi muri del complesso presidenziale vicino alla piazza Tienanmen, i mandarini cinesi hanno paura che uno shock economico possa provocare le masse, mettendo fine alla dittatura del capitalismo di cui sono a capo. Con più di 2 mila e quattrocento miliardi di dollari nelle loro casseforti – un incredibile 30 per cento delle riserve di valuta mondiale – i governanti cinesi si possono permettere di spendere quanto e come vogliono per tenere basso il renminbi. E negli ultimi due anni non hanno fatto altro: la divisa cinese è rimasta praticamente fissa nei confronti del dollaro nonostante la retorica e le minacce di Washington. L’aggressività verbale del governo americano è chiaramente inutile con un interlocutore che ha il potere economico e finanziario della Cina. Il mercantilismo – la convinzione che il potere commerciale è il presupposto per il potere politico e diplomatico - che portò prosperità all’Europa del Rinascimento è ritornato in voga nella Cina del 21° secolo. La ricetta per i politici americani in questo frangente è: più Prozac, meno caffè. Le risposte al caos delle monete non possono essere misure protezionistiche unilaterali che penalizzerebbero gli americani che amano i prezzi bassi dei prodotti made in China. Solo un accordo multilaterale può risolvere una situazione così complessa e precaria. La Cina sa che un graduale aumento nel valore del renminbi è inevitabile per stimolare la domanda interna e incominciare la transizione da «fabbrica del mondo» con stipendi bassissimi e condizioni di lavoro inumane ad economia sviluppata e ben bilanciata. La parola-chiave in questo frangente è «graduale». Le dinamiche di politica interna non lasciano scelta al governo cinese: i movimenti nella divisa devono essere lenti. Infatti, il renminbi si è già mosso un po’, crescendo del 2 per cento nei confronti del dollaro da giugno. Non è tantissimo ma, se sostenuto, questo ritmo di rivalutazione consentirebbe all’America e al resto dell’Asia di respirare un pochino. Gli alti funzionari del Tesoro mi assicurano che, nonostante le esternazioni di Geithner e Obama, il governo Usa sta spingendo per una diplomazia di persuasione per convincere i cinesi a continuare su questa politica dei piccoli passi, anche senza un accordo esplicito tipo Plaza. Se l’America vuole mantenere il suo status di superpotenza ed evitare una guerra commerciale che danneggerebbe la sua economia più di ogni altra, Obama e i suoi si dovrebbero ricordare della famosa frase di Zhou Enlai, il premier cinese all’epoca di Mao. Quando Henry Kissinger gli chiese la sua opinione sull’impatto della Rivoluzione Francese del 1789, Zhou ci pensò a lungo prima di dire: «La Rivoluzione Francese? È troppo presto per giudicare».