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 2010  ottobre 15 Venerdì calendario

Briganti, patrioti e illusi: prove di guerra civile - Ciò che accadde nel 1861 realizzava il so­gno secolare di poe­ti, politici e intellet­tuali

Briganti, patrioti e illusi: prove di guerra civile - Ciò che accadde nel 1861 realizzava il so­gno secolare di poe­ti, politici e intellet­tuali. L’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», invocata da Alessandro Manzoni,non era più un’astrazio­ne. Ma i che modi e con che spiri­to fu compiuta l’impresa? Quali tragedie e ingiustizie la accompa­gnarono? Realizzata dalla classe dirigen­te piemontese grazie soprattutto all’abilità diplomatica di Cavour e al temperamento incendiario di Garibaldi, l’Unità integrava dav­vero identità, culture, tradizioni, persino lingue diverse? Oppure si raggiungeva soltanto l’unità poli­tica? «Si è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani», recitava la cele­bre sentenza di Massimo d’Aze­glio, con retorica sufficiente a vela­re un’intenzione che non c’era ­almeno non in tutta la classe diri­gente - e non ci sarebbe stata. Lo stesso d’Azeglio scrisse,in una let­tera privata: «La fusione coi Napo­letani mi fa paura; è come metter­si a letto con un vaiuoloso». Una parte del nuovo Stato era già «italiana», l’altra non lo era af­fatto. Occorreva dunque educar­la a essere diversa da sé, a costo di snaturarla. Ai primi segni di insof­ferenza del Sud, nacque subito una contrapposizione rancoro­sa: «noi» contro «loro». «Noi», i ci­vilizzatori; «loro», i brutali indige­ni. «Noi», i portatori di giustizia e legalità;«loro»,i briganti.A divide­re gli uni e gli altri, c’era una diver­sità radicale e radicata, non un’in­conciliabilità momentanea. Qual­cosa di molto simile a un’estranei­tà, che si finì per aggravare. La sto­ria - a partire dalla Rivoluzione francese - aveva insegnato che, appena si annunciano grandi cambiamenti, dal cuore antico di masse amorfe e analfabete pro­rompe l’animus di un’opposizio­ne sanguinaria. Per sminuirne la portata, tale opposizione veniva svilita- dagli intellettuali, dai poli­tici e dall’opinione pubblica - a una viscerale manifestazione di rancori e pulsioni irrazionali. Si trattava, invece, di una resistenza ideologica e politica, oltre che so­ciale. Ma, per liquidarla, i maestri della Rivoluzione francese aveva­no già capito che il segreto stava nell’accomunare la rivolta al delit­to comune. Anche in Italia la ribel­lione - di reazionari, contadini e clericali - contro lo Stato appena costituito fu etichettata «brigan­taggio ».Al Sud c’erano banditi ve­ri, criminali comuni, prima, du­rante e dopo l’Unità. A questi de­linquenti vennero equiparati i «briganti», come vennero chia­mati i meridionali in lotta per scac­ciare gli «stranieri»che sbandiera­vano una fratellanza forzata; dal­l’altra parte non c’erano parenti, affini, connazionali, bensì un po­polo nemico, un invasore brutale e arrogante, venuto da lontano. Nessuna solidarietà, nessuna vici­nanza, né culturale, né umana, né politica: i briganti non si senti­vano «italiani». I nemici erano usurpatori, colonizzatori arrivati per conquistarli e per cancellare la loro storia, i costumi, i legami e le appartenenze. Due mondi era­no in conflitto tra loro. Perché l’uno venisse a patti con l’altro oc­correva che il vincitore ricono­scesse le differenze e cercasse di cancellarle realizzando una mag­giore giustizia sociale. Si preferì l’azione repressiva, determinata a stroncare, soffocare, estirpare. Una logica che alimentò se stessa: la violenza ne generò altra, sem­pre più crudele. Ufficiali e soldati italiani si sentirono avamposti in pericolo, esploratori in una terra popolata da una razza diversa, percepita come inferiore [...]. Con la legge Pica, dell’agosto 1863, il governo italiano- in pieno accordo con il Parlamento-impo­se lo stato d’assedio, annullò le ga­­ranzie costituzionali, trasferì il po­tere ai tribunali militari, adottò la norma della fucilazione e dei lavo­ri­forzati, organizzò squadre di vo­lo­ntari che agivano senza control­lo, chiuse gli occhi su arbitrii, abu­si, crimini, massacri. Mentre acca­deva tutto questo, c’era chi vede­va dietro il brigantaggio l’interven­to del Papa, chi la longa manus borbonica, e in parte avevano ra­gione. Ma ne aveva di più chi sug­­geriva, inascoltato, che la causa principale andasse ricercata nel­le oggettive condizioni di minori­tà sociale e di miseria della plebe meridionale. La verità su cui al Nord tutti concordavano è che, appena nata, l’Italia era già ma­dre di due figli diversi: uno di cui andare fieri, l’altro bisognoso di severe lezioni. Per gli uomini dei Savoia, i bri­ganti erano l’emblema di quel fi­gliastro malato e depresso, geneti­camente tarato. Ma non basta l’approccio razzistico a spiegare l’atteggiamento tenuto nei suoi confronti, c’è dell’altro: potrem­mo chiamarla la sindrome del «chi ce l’ha fatto fare?». Si spiega­no così prima la spietatezza della repressione, poi l’adozione di una politica economica e sociale del tutto inadeguata ai problemi del Mezzogiorno; più tardi la per­severanza con cui quei problemi vennero liquidati come sintomi indelebili di arretratezza e di pa­rassitismo. Il brigantaggio rappre­sentava il segnale d’allarmedi un guasto grave,e non solo per l’ordi­ne pubblico. Il modo in cui fu combattuto sviluppò quella che sarebbe diventata la «delinquen­za organizzata», e accrebbe a di­smisura la gravità di una questio­ne­meridionale destinata a incan­crenire la vita politica del Paese perpetuando la contrapposizio­ne Nord- Sud. I contadini saliti sui monti furono - con le sole armi che avevano a disposizione, la di­sobbedienza e il banditismo- i ri­belli di una storia che li aveva igno­rati, di un processo che aveva san­cito la rimozione della loro cultu­ra e della loro tradizione. Furono la spina nel fianco del potere, al­meno per cinque lunghissimi an­ni. Saranno sconfitti, ma grazie al­la loro rivolta, si rafforzò la sensa­zione che la terra abitata da quel popolo sarebbe stata la «palla al piede»della nazione.«Ci avete vo­luti, imponendoci la vostra volon­tà: ora pagate le conseguenze».Ec­co cosa sembrava dire il Sud al conquistatore. Tutto ciò rivela gli errori e le colpe di una classe diri­gente a cui dobbiamo riconosce­re i meriti storici di avere realizza­to un processo unitario non più rinviabile. Allo stesso tempo, i pa­dri della patria devono essere giu­dicati anche sui piedistalli dove, intangibili, li ha collocati la retori­ca di un Risorgimento popolato solo da piccole vedette lombarde, tamburini sardi e giganti del pa­triottismo. È una retorica che vuo­le il nostro Risorgimento fatto so­lo di eroi, di martiri, di Bene oppo­sto al Male. È una storia alla quale tuttora manca una profonda ope­ra di revisione storiografica [...]. Perciò il brigantaggio postunita­rio è stato, lungo il secolo e mezzo di storia nazionale, poco più di una parentesi della quale si sono perse le tracce, quasi un incubo da rimuovere e censurare, una pa­gina vuota, una tragedia senza narrazione. I briganti scontano, oltre alla sconfitta, anche il desti­no della damnatio memoriae . A loro, non spetta l’onore delle ar­mi. Gli sconfitti sono scomparsi nella zona d’ombra in cuili ha re­legati la cattiva coscienza dei pa­dri della patria. Una guerra in-civi­le come quella andava dimentica­ta, rimossa o almeno ridimensio­nata alla stregua di una semplice, per quanto sanguinaria, operazio­ne di polizia. [...] C’è solo da spera­re che, con le prossime celebrazio­ni dei 150 anni di Unità nazionale, si rinunci almeno in parte al con­formismo retorico e patriottardo: aggettivo molto diverso da «pa­triottico ».