Simon Johnson, Il Sole 24 Ore 15/10/2010, 15 ottobre 2010
BANCHE USA A SPORTELLI GIREVOLI
Il mondo è sull’orlo di un aspro conflitto sui tassi di cambio, che ora rischia di espandersi alle politiche commerciali (le strizzate d’occhio al protezionismo negli Stati Uniti), all’atteggiamento nei confronti dei flussi di capitale (nuove restrizioni in Brasile, Thailandia e Corea del Sud), al consenso delle popolazioni riguardo alla globalizzazione dell’economia (quasi ovunque cresce l’ostilità verso lo straniero). Di chi è la colpa di questa situazione sempre più fuori controllo, e che cosa ci riserva il futuro?
Di solito il problema viene inquadrato in questi termini: alcuni paesi stanno effettivamente "imbrogliando", mantenendo i loro tassi di cambio sottovalutati, in modo da incentivare le esportazioni e limitare le importazioni? E che cosa succederebbe, invece, se le loro Banche centrali lasciassero fluttuare liberamente la valuta?
In quest’ottica convenzionale, il colpevole principale è la Cina, anche se l’Fmi non è da meno. Ma, allargando lo sguardo, si vede che la gravità della situazione attuale è dovuta soprattutto al rifiuto dell’Europa di riformare la governance economica mondiale, aggravata da anni di malgoverno e autoinganno oltreoceano.
Certamente la Cina ha delle responsabilità. In parte per scelta e in parte per caso, circa una decina di anni fa Pechino ha cominciato ad accumulare sistematicamente grandi quantità di riserve valutarie estere, tenendo in piedi un saldo commerciale positivo e intervenendo a fare incetta dei dollari generati in questo modo. Nella maggior parte dei paesi, un intervento di questo genere farebbe crescere l’inflazione, perché la Banca centrale stampa valuta locale in cambio di dollari. Ma dato che il sistema finanziario cinese rimane strettamente controllato e che le possibilità degli investitori sono molto limitate, le consuete ripercussioni inflazionistiche non ci sono state.
Tutto questo ha garantito al Celeste Impero (cosa inedita per un grande paese commerciale) di poter accumulare riserve di valuta estera (ora prossime ai 3mila miliardi di dollari). Il suo attivo nel saldo con l’estero ha toccato l’apice prima della crisi finanziaria del 2008, con l’11% circa del Pil. E la lobby nazionale degli esportatori sta combattendo con le unghie e con i denti per mantenere il tasso di cambio più o meno invariato rispetto al dollaro.
In teoria, l’Fmi dovrebbe fare pressioni sui paesi con un tasso di cambio sottovalutato perché lascino apprezzare le loro monete. Il Fondo vola alto nei suoi discorsi, anche all’incontro annuale dei suoi azionisti (le Banche centrali e i ministri dell’Economia di tutto il mondo) che si è appena concluso a Washington. Ma la realtà è che l’Fmi non ha potere sulla Cina (o su qualsiasi altro paese in attivo nel saldo con l’estero); il comunicato finale della settimana scorsa probabilmente è il più insulso della storia.
Purtroppo, l’Fmi ha colpe più gravi della tracotanza. Con la sua gestione della crisi finanziaria asiatica del 1997-1998 si è fortemente inimicato i maggiori paesi emergenti a medio reddito, convinti ancora che il Fondo non curi i loro interessi. E qui gli europei occidentali giocano un ruolo di primaria importanza, perché sono largamente sovrarappresentati nel consiglio direttivo, e nonostante tutte le petizioni rifiutano categoricamente di accorpare i loro seggi per dare più potere ai mercati emergenti.
Di conseguenza, i mercati emergenti, per garantirsi di non essere costretti a ricorrere all’aiuto finanziario dell’Fmi nel prossimo futuro, stanno seguendo sempre di più l’esempio della Cina, puntando anche loro a un surplus delle partite correnti. In pratica, tutto questo si traduce in grandi sforzi per impedire che la propria valuta si apprezzi.
Ma gran parte della responsabilità dei rischi che corre oggi l’economia mondiale è degli Stati Uniti, per tre ragioni. Primo, la maggior parte dei mercati emergenti è del parere che l’apprezzamento della propria valuta sia dovuto all’aumento dei flussi di capitale in entrata. In Brasile un investitore si vede offrire rendimenti dell’11%, mentre negli Stati Uniti lo stesso rischio di credito frutta non più del 2-3%: è una puntata sicura. Inoltre, i tassi americani probabilmente resteranno bassi, perché il sistema finanziario americano si è gonfiato a dismisura (con l’appoggio delle banche europee) e perché i tassi bassi, per ragioni interne, rimangono uno degli elementi della miscela politica del dopocrisi.
Secondo, negli ultimi dieci anni gli americani hanno registrato un saldo commerciale negativo, da quando l’élite politica - sia repubblicana che democratica - ha perso ogni reticenza verso il consumismo sfrenato. Il deficit Usa semplifica il compito di quei mercati emergenti, come la Cina, che invece puntano al surplus: la bilancia mondiale delle partite correnti è pari a zero, perciò se un gruppo consistente di paesi vuole restare in surplus, ci dovrà essere qualche grosso paese che resta in deficit.
Gli esponenti più illustri dell’amministrazione Bush parlavano del disavanzo delle partite correnti Usa come di un "dono" per il resto del mondo. Ma onestamente negli ultimi dieci anni gli americani hanno consumato troppo, sono vissuti ben al di sopra dei propri mezzi. L’idea che i tagli alle tasse avrebbero prodotto incrementi della produttività e si sarebbero ripagati da soli si è dimostrata una pura fantasia.
In terzo luogo, il flusso netto di capitali è diretto dai mercati emergenti agli Stati Uniti (questo significa avere un surplus delle partite correnti nei mercati emergenti e un deficit nel mercato americano). Ma il flusso lordo di capitali va dai mercati emergenti ai mercati emergenti, attraverso grandi banche americane ed europee, ora implicitamente sostenute dallo stato. Dal punto di vista degli investitori internazionali, le banche "troppo grandi per fallire" sono i posti migliori per parcheggiare le proprie riserve (fintanto che lo stato in questione rimarrà solvente). Ma che cosa faranno queste banche con i fondi?
Quando un problema simile emerse negli anni 70 - il così detto "riciclaggio delle eccedenze del petrolio" - le banche delle piazze finanziarie occidentali erogarono prestiti all’America Latina, alla Polonia comunista e alla Romania comunista. Non fu una grande idea, perché portò, nel 1982, a una pesante (per l’epoca) crisi d’indebitamento.
Ora stiamo andando incontro a qualcosa di simile, ma su più vasta scala. Le banche e gli altri operatori finanziari hanno tutti gli incentivi a spingere sul rischio; si prendono i guadagni (le retribuzioni di Wall Street quest’anno si apprestano a stabilire un nuovo record) e scaricano le perdite sui contribuenti.
La "guerre monetarie" di per sé non sono altro che delle scaramucce. Il grosso problema è che il cuore del sistema finanziario mondiale è diventato instabile, e l’assunzione sconsiderata di rischi produrrà, ancora una volta, enormi danni collaterali.
(Traduzione di Gaia Seller)